Quella profezia sulla fine del mercato

11 Ottobre 2008 Off Di Pantaleo Gianfreda
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L’istituto del fallimento sta al capitalismo come le belle gambe stanno ad una top model. Un’economia di mercato senza premi e punizioni, cioè arricchimenti e impoverimenti, è una contraddizione in termini. Non a caso, l’austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950), forse il massimo studioso della figura dell’imprenditore, parlava di «distruzione creativa», cioè della capacità del sistema capitalistico di generare valore e ricchezza sulle ceneri di prodotti e servizi finiti fuori mercato. Ma oggi nessuno è disposto ad accettare l’idea stessa del fallimento. Schumpeter sosteneva che il pregio del mercato non è l’efficienza statica (allocativa e produttiva), ma l’efficienza dinamica (cioè l’innovazione).

Ma pur dichiarandosi un tifoso del libero mercato, Schumpeter non avrebbe scommesso un dollaro sulla sopravvivenza del capitalismo. E non perché si fosse convinto che l’evoluzione dell’economia avrebbe dato ragione alla profezia di Karl Marx (1818-1883) sull’avvento inesorabile del socialismo. Anzi. L’eutanasia del capitalismo, prevedeva Schumpeter, sarebbe stata provocata da ragioni sociologiche, non economiche. Il capitalismo, a parere dell’economista austriaco, sarebbe caduto per l’assalto degli intellettuali allo schema dei valori borghesi e per la cultura della resa che si sarebbe impadronita degli stessi capitalisti, il cui obiettivo finale sarebbe diventato un altro: l’avvio di un socialismo borghese e manageriale, del quale avrebbero fatto parte, ovviamente nel ruolo di élite e di guida, i medesimi imprenditori privati convertiti all’anticapitalismo. E, siccome – argomentava il liberale Schumpeter – la reputazione morale del socialismo è superiore all’indice di gradimento del capitalismo, finirà che il nuovo sistema riuscirà a sopravvivere a dispetto di tutte le perplessità dei fedelissimi dell’economia di mercato.

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Tra gli anni Sessanta e Settanta sembrava che il vaticinio di Schumpeter fosse sul punto di avverarsi.

Non si contavano gli intellettuali borghesi che, pur avversando il modello sovietico, ne pronosticavano il trionfo. Poi la rivoluzione liberista reaganian-thatcheriana ribaltò il pronostico, tanto da indurre un pensatore come Francis Fukuyama (adesso criticissimo nei confronti del mercato) a brevettare la formula di fine della storia. Traduzione: il capitalismo ha stravinto. Per sempre.

Oggi, il vento è cambiato nuovamente. Il liberismo è sotto schiaffo. Molti suoi adepti invocano il salvagente dello Stato. Molti interventisti rimasti taciturni negli anni della deregulation stanno ritornando alla carica spingendosi fino a oracoleggiare la morte del mercatismo, neologismo tremontiano teso a squalificare i sostenitori del mercato a tutti i costi.

Insomma. Sembra di rivivere alcune stagioni del passato, con gli opposti estremismi del pensiero economico intenti a suonarsele (a colpi di invettive) di santa ragione. Purtroppo, anche stavolta, l’ideologismo, cioè il partito preso sembra prevalere sulla verità dei fatti. E così, se i liberisti-liberisti giustificano ogni diavoleria finanziaria, anche a costo di difendere l’indifendibile, cioè lo stupro di ogni organismo di legge e di ogni regola morale, i dirigisti-dirigisti trascurano le responsabilità della politica nelle direttive che hanno scatenato l’origine del collasso finanziario mondiale. Pochi ricordano tuttora che a sollecitare prestiti e mutui a famiglie americane con il portafogli modesto sono state due agenzie semigovernative, direttamente ispirate dall’amministrazione Usa. Non a caso, i custodi dell’ortodossia reaganiana giudicano George Bush junior come un sosia di Giuda, come uno sfacciato traditore del verbo liberista.

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In effetti l’attuale presidente Usa ha utilizzato più soldi pubblici del sovietico Leonid Breznev (1906-1982). Ma l’America è l’America, una nazione in grado di oscillare tra Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) e Ronald Reagan (1911-2004) senza compromettere il Dna del suo sistema politico-economico. L’Europa e l’Italia, invece, sono realtà più fragili, come testimonia il fatto che non riescono a trovare una linea comune anti-crisi neppure in un vertice ristretto, a 4 (Italia, Germania, Inghilterra e Francia) anziché a 27 (il numero dei Paesi aderenti all’Unione Europea). Sono realtà dove la predizione di Schumpeter sulla fine del capitalismo e sulla trasformazione dei capitalisti in manager di Stato avrebbe più probabilità di trovare conferma in futuro.

La verità è che nessuno può scagliare la prima pietra. Gli americani (i colpevoli, ovviamente) hanno truffato mezzo mondo con i loro mutui sub prime e vanno scorticati. Ma anche l’Europa, che pure si vanta di aver perfezionato la sua economia mista (semipubblica o semiprivata, fate voi), non sta facendo una bella figura. Con un codicillo supplementare. Non sta scritto da nessuna parte che la politica sia infallibile e che possa predisporre regole perfette in grado di evitare nuovi crolli finanziari. Solo un’autorità divina ne sarebbe capace. Le decisioni dei governi potrebbero addirittura peggiorare la situazione, qualora contribuissero a mortificare la concorrenza e lo spirito di iniziativa.

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Probabilmente il capitalismo e il mercato non creperanno di infarto, come si potrebbe paventare scorrendo i listini di Borsa di questi giorni. Ma potrebbero, soprattutto in Italia, sfociare in un modello simil-schumpeteriano, però senza la dignità culturale legittimata dal famoso economista. Un modello economico ancora più assistito e deresponsabilizzato, con molti capitalisti nella comoda posizione (per loro) di manager di Stato.


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Pantaleo Gianfreda