Ultimi bagliori di lotta: 32 anni fa l’arresto di sei tabacchicoltori collepassesi

30 Dicembre 2008 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Furono arrestati all’alba del 30 dicembre 1976 dopo una manifestazione contro la crisi del tabacco. Nell'articolo Giuseppe Lagna scrive di quei giorni, attraverso il ricordo di Antonio, uno degli arrestati. Né Giuseppe né Antonio possono, però, sapere del silenzioso e decisivo ruolo che ebbero l’on. Mario Foscarini, allora presidente provinciale dell’Alleanza Contadini, e il valente avv. Mario Indirli per far liberare gli arrestati e restituirli alle loro famiglie il giorno di Capodanno. Fondamentali la sensibilità e l’umanità del dott. Cataldo Motta, attuale Capo della Procura della Repubblica di Lecce, che firmò l'ordine di scarcerazione il 1° gennaio 1977. Allora, giovane consigliere comunale e dirigente dell’Alleanza Contadini (l’organizzazione che organizzò la protesta con altri sindacati), vissi quelle intense giornate sempre al fianco di Foscarini, mio indimenticabile maestro. (pantaleo gianfreda)

Le luminarie con l’orchestra rimandano ancora le note della Canzone del Piave, che ha chiuso, come sempre, la festa patronale con il fascio di fiori al direttore, e la piazza diffonde ancora sentori di cupetascapece.

Professore, me ticisti ca venivi a casa?

Ueh, Antonio! Sediamoci a ‘sto sedile e parliamo tranquilli, al sole.

I  baffi da guinness di Antonio, color paglia, ed i capelli di Giuseppe, sale e pepe, inesorabilmente testimoniano che son trascorsi quasi trentadue anni dall’epoca dei fatti.

Il campanello alla porta suonò che battevano le cinque del mattino ed il 30 dicembre, a quell’ora, il buio è ancora pesto.

Antonio si alzò dal letto già bello e vispo: a quel tempo giovane e forte, famiglia cresciuta bene, numerosa.

Era, comunque, solito levarsi di buon’ora, perché doveva lavorare, e come!

Quintali di tabacco prodotti non sono uno scherzo, ma la ricompensa a tanta fatica, quell’anno, tardava ad arrivare.

Con quel pensiero si avviò nel corridoio ad aprire.

Chi è? – chiese.

Carabinieri! – fu la risposta, secca.

Il maresciallo disse che doveva condurlo al pretore per un interrogatorio.

Antonio tenne per sé i suoi dubbi e chiese se poteva almeno farsi la barba.

No, sbrìgati e vèstiti! – gli intimò il maresciallo.

In casa, intanto, erano tutti in piedi, increduli; Milena conserverà per sempre il ricordo della fredda sveglia e del buio fuori.

Una volta in strada, Antonio vide che la casa era circondata; fu infilato, sul sedile posteriore, in una delle auto dei carabinieri e poco dopo raggiunsero l’abitazione di un compaesano. Preso anche lui e messo a sedere al fianco di Antonio, fece in tempo a notare il sorriso ironico di un vigile urbano, con il compito di guida.

Nell’ampia sala della sede del Comando di Compagnia si ritrovarono in sei: si racconta che qualcuno dell’elenco non si fece trovare alla retata.

Non ci fu alcun interrogatorio, solo le normali pratiche burocratiche e, pronte, le manette. Li vincolarono a coppie e via! Destinazione: il carcere mandamentale di zona.

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Tutto si era svolto molto in fretta, in mezz’ora, un’ora al massimo, ma ad Antonio era sembrato un secolo e si accorse all’improvviso che era giorno. E domani – pensò – sarà l’ultimo dell’anno!

E pensare che domani sarà l’ultimo dell’anno! – disse il compagno di manette, che gli aveva letto in testa.

Ed il trentuno dicembre arrivò. Avevano dormito bene, vinto la stanchezza mentale più che quella fisica.

Si intrattenevano tutti insieme, anche per lungo tempo, i compaesani “galeotti”; le guardie lo permettevano, specialmente durante i pasti.

Era giunta, infatti, la solidarietà di parenti, sotto forma di svariati generi alimentari; di conforto, come si dice.

Anche il Sindaco aveva inviato delle “pezze” di formaggio, il consigliere provinciale bottiglie di ottimo vino rosso di sua produzione.

C’era il necessario per  tentare di dimenticare il guaio in cui si erano cacciati.

Qualcuno non intese attendere forme di difesa politica o sindacale, che si annunciavano, e “si mise” subito, per conto proprio, un  avvocato di grido; e di portafoglio, logicamente.

Sorse, così, l’alba del 1977 e, con essa, la voce che sarebbero stati scarcerati.

La mattina di Capodanno, intorno alle undici, la conferma.

A mezzogiorno, familiari con le auto erano pronti a riportarli a casa.

Com’era solito fare, anche quella mattina Giuseppe preferì giungere a scuola con  notevole anticipo.

Gli piaceva attendere le colleghe che arrivavano alla spicciolata, davanti al tavolo con il registro delle firme, ed intavolare, a volte molto provocatoriamente, discussioni politiche, ma anche di costume, perché no!, perfino di moda ed acconciature. L’importante era stanare nella maggior parte di loro il milieu conservatore, da vere e proprie vestali della classe media.

Di scioperare, naturalmente, non se ne parlava proprio; a volte, dopo aver cercato invano di far aderire qualcuna, tristemente riprendeva la via di casa o si recava con l’autostop all’Università, per riprendersi, in ambiente più salubre, dalla rabbia e dalla fregatura di averci rimesso il compenso giornaliero, per giunta al lordo.

Stavolta, però, la cosa era veramente grossa!

Attraversando la piazza del paese, Giuseppe aveva raccolto fugacemente notizie che l’avevano quasi commosso.

Gli era dispiaciuto non esser andato a sincerarsi di persona, perché sarebbe arrivato tardi a scuola, ma anche perché la prima cosa che gli balenò in mente fu quella di partecipare con quante più classi possibile a quella giornata di lotta, memorabile per un paese fin troppo paludato.

Era successo che gruppi di coltivatori di tabacco, esasperati per l’enorme ritardo nel ritiro del loro prodotto, avevano, al mattino presto, bloccato le vie di accesso al paese.

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Sorpresa: con l’ausilio decisivo del fiduciario della scuola, democristiano sensibile al mondo del lavoro, restarono in aula solo due classi.

Evidentemente, non ci si poteva, in questa occasione vigliaccamente tirare indietro.

Del resto, non s’era sempre detto che “occorre partire dal vissuto del ragazzo”?

All’epoca più della metà degli alunni apparteneva a famiglie di coltivatori di tabacco; quindi, bisognava fare quel giorno lezione sul campo.

Uscirono tutti in corteo per le vie del paese, in solidarietà con i “rivoltosi”, così gli scolari avrebbero capito meglio cosa si è costretti a fare, a volte, per campare.

Azzate mamma e masura le caddhrine, vidi ca manca lu meju capone; lu capitanu te lu battaglione, quiddhru ca porta le pinne turchine! – cantavano i bambini della quarta di Giuseppe, appresa appena pochi giorni prima durante la ricreazione.

E ancora: –Te l’aggiu dittu cu nu chianti lu tabaccu, la ditta nu ti dae li taraletti!

Aveva, a bella posta, evitato di far apprendere ai ragazzini la strofa “Femmane femmane ca sciati allu tabaccu, ne sciati a doi e ne turnati a quattru!”, il massimo dell’autoironia popolare a fronte del massimo dello sfruttamento femminile.

Percorrevano le stesse strade, che fino ad un paio di mesi prima erano fiancheggiate da enormi distese di telai di tabacco al solleone; alle soglie di Natale erano bagnate di scirocco, come se fosse piovuto, ed il raccolto così ammuffiva sempre di più.

A Giuseppe tornavano alla mente le storie che sua madre tabacchina gli raccontava da bambino, di grandi litigi con la mescia e persino con il concessionario: “Sta sònane le sette, tutte allu magazzinu!”.                   

Poi, da grande, aveva appreso ai corsi di storia moderna e contemporanea le rivolte delle tabacchine in tutto il Salento, con le donne morte sparate a Tricase.

E gli usciva con impeto: – E’ ora, è ora, potere a chi lavora!

Il corteo delle scolaresche non giunse fino ai blocchi, ma rientrò in breve tempo a scuola, per riprendere le normali lezioni.

Alla notizia dell’arresto di sei concittadini, rei di aver bloccato le strade d’accesso al paese, il dibattito ferveva fra i diversi appartenenti alla sinistra, in special modo giovani che in quegli anni erano padroni della “piazza”.

Verso le undici, alla spicciolata, si recarono dall’unico giornalaio del paese, dove ognuno comprò il suo informatore. Roberto prese il suo “Lotta Continua”, Cosimino e Silvano “l’Unità”, Giuseppe ritirò un “Nuova Unità” ed il settimanale “Fronte Popolare”.

Tornati in villa, rimandarono la lettura al pomeriggio a casa, perché l’argomento dell’arresto dei sei rivoltosi teneva banco.

Il dibattito, molto sfaccettato, aveva soltanto una constatazione comune: i manifestanti, pur avendo tutte le ragioni, erano stati molto ingenui. Qualcuno si era fatto pure fotografare dai carabinieri o da chi per loro.

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Sì, purtroppo, c’era anche questo: si parlava di un giovane esponente politico che si era divertito a farlo e che, comunque, aveva spifferato alcuni nomi.

Un fatto è certo! – disse Giuseppe – Hanno preso sei persone assolutamente spoliticizzate, per intimorire maggiormente il movimento crescente di lotta presso i coltivatori.

Giusto! – confermò Roberto, non quello di Lotta Continua, ma il segretario giovanile del PCI – E’ un chiaro atto di intimidazione.

Nei giorni precedenti c’erano stati incontri politico-sindacali di zona, perché anche altri coltivatori, un po’ in tutto il comprensorio, soffrivano lo stesso problema, ma la situazione era sfuggita di mano: la disperazione gioca brutti scherzi.

In realtà, erano ormai chiari i segni che la coltura del tabacco salentino, già assistita, non interessava più di tanto; il destino segnato con la sparizione degli ultimi coltivatori, ormai anziani.

E giù lì a discutere sulla logica perversa delle multinazionali, sui governi che non si erano mai interessati della trasformazione e lavorazione in loco del prodotto, trattando il territorio alla stregua di una colonia.

Per tutte queste omissioni ed anni di incuria, stavano pagando i sei “sovversivi”, eversori dell’ordine pubblico.

Perciò, anche se non si trattava di eroi dal punto di vista politico, alla notizia dell’imminente liberazione, si decise di andare ad accoglierli in modo degno.

All’ingresso del paese  giunsero alcune auto, che si fermarono per abbracci e trasbordi vari.

Alla vista dei tabacchicoltori liberati, i giovani intonarono il canto di Bandiera Rossa al loro indirizzo.

Dovettero fermarsi appena dopo poche strofe, perché furono coperti da improperi e gestacci da parte dei liberati e relativi familiari.

Come dovevasi dimostrare! – profferì Giuseppe.

Ma vaffanculo, andiamocene! – fu la risposta in coro degli altri compagni.

Delusione cocente, in special modo per i più giovani.

Il riflusso degli anni ‘80 era pronto a risucchiare qualcuno di loro; l’emigrazione per lavoro compì il resto.

Furono gli ultimi bagliori di lotta nel paese, anche se solo lontanamente paragonabili all’occupazione delle terre degli anni ‘50, movimento di respiro ampio e progettuale.

Gradualmente, nonostante l’impegno cooperativistico, la coltivazione del tabacco salentino andò scemando sempre più, fino alla cessazione totale all’alba del nuovo millennio.

La cultura di fatica, sudore e lotta consegnata per sempre nei canti e nelle vecchie foto d’epoca.

All’orologio della piazza manca poco a mezzogiorno del 9 settembre 2008.

Grazie, Antonio. Bene così. Ti saluto e buon appetito.

Statte bonu, professore!  E scrivilu prestu, me raccumandu!


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Pantaleo Gianfreda