Re Silvio e il complesso del rango: tre anni di fastidio per il Colle

8 Febbraio 2009 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Nel 2006 lo bollò come "comunista doc". Poi il fair play ha occultato un'insanabile rivalità. In novembre lo sfogo del premier: "Insulti dalle tv". E il Presidente: "Non guardarle…"

Se c’è una cosa che il presidente Berlusconi, pur così disponibile al contatto umano, non sopporta è un atteggiamento di condiscendenza, di degnazione, di superiorità. Da questo punto di vista non c'è persona, non c'è ufficio, né ordine simbolico, né legge fondamentale dello Stato che lo trattengano dal voler regolare i conti, prima o poi, con chi lo tratta, per dirla facile-facile, dall'alto in basso.

Con tale premessa di ordine psicologico e istituzionale, per quanto il genere giornalistico del retroscena sia spesso sospetto, varrà forse la pena di richiamarne uno anche piuttosto recente: 9 dicembre scorso, durante un pranzo al Quirinale ufficialmente convocato per parlare di un Consiglio europeo. Ebbene, richiesto ancora una volta dal Capo dello Stato di fare uno sforzo per riavvicinare le sue posizioni a quelle dell'opposizione, il Cavaliere non trovò di meglio che abbandonarsi a una delle sue classiche tirate, o geremiadi che dir si voglia, comunque a sfondo vittimistico: ma come, ma insomma, ma ti rendi conto, ma come si fa, a me, il mio ruolo, io, il presidente del Consiglio, mi attaccano, mi dileggiano…

Napolitano se lo rimirava in silenzio, impassibile. E lui continuava, passando al clou della lamentazione, la tv: "I loro comici, capisci, mi insultano!". Al che il padrone di casa, che poi dopo tutto è l'unica vera reggia sul colle più alto della Repubblica, l'ha interrotto con una specie di sorriso: "No, guarda, su questo, non vale la pena di prendersela così". E qui Napolitano, che in gioventù ha fatto l'attore e perciò conosce i tempi delle battute, gli ha gli rifilato uno sguardo freddo e: "Fai come faccio io: non guardare la televisione!".

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La politica vive anche di queste atmosfere (che poi i giornalisti condiscono con qualche temerario particolare). Ma di sicuro, come del resto accaduto nell'ultimo quindicennio con Scalfaro e poi con Ciampi, si può documentare che la concezione che il presidente Berlusconi ha della propria sovranità – per dirla difficile: potestas superiorem non recognescens – è inesorabilmente destinata a scontrarsi con il ruolo e il rango che la Costituzione assegnano a Napolitano. Egli è infatti costituzionalmente inferiore, ma come sintetizzano qui a Roma: "Nun ce vole stà". E' un sentimento più forte di lui – ancorché foriero di gravi conseguenze istituzionali.

Di qui, in ogni caso, una lunga e anche articolata storia di conflitti, molto reali, parecchio personali e un po' anche di Palazzo (sgradevolezze protocollari, udienze rinviate, ricevimenti disertati, precisazioni imposte), controversie ora striscianti e ora destinate a emergere alla luce delle cronache con la sottintesa aggravante che il Cavaliere da sempre desidera di sedersi su quella poltrona. E più passano gli anni, più lui appare desiderante, anzi impaziente, e spesso così insofferente da costringerlo a rivelare in pubblico la profezie di Pertini, addirittura, che lo vide già sul Colle. O a mostrarsi inelegante, come quando a proposito dell'immondizia gli è scappato di pensare a quanta ne sarebbe entrata nel Torrino del Quirinale. Come pure a candidare a quel posto altri suoi seguaci, nella persona del "dottor Letta".

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E comunque, tanto per cominciare: Napolitano lui non l'ha votato. Appena eletto (maggio 2006) l'ha designato "comunista doc"; poi "uno dei loro"; quindi ai tempi del governo Prodi ha cominciato a far pressioni sullo scioglimento delle Camere dando per scontato che, una volta vinte le elezioni, il Quirinale l'avrebbe fatto passare per le "forche caudine", testualmente. E tuttavia, tornato infine a Palazzo Chigi, sul più bello Berlusconi si è trovato di nuovo e puntualmente a dover subire la fatica e l'onta della sua mancata superiorità.

La cultura aziendale in questo non lo aiuta, né le odi degli alleati sulla rivoluzione carismatica o le lusinghe dei cortigiani, alcuni pure spediti ai vertici della Repubblica. Di solito il potere si ammanta e si maschera, ma a volte è tutto abbastanza chiaro: da lassù, molto semplicemente, Napolitano gli impediva di fare quello che la storia gli richiedeva e che lui, il Cavaliere, con il consueto slancio iper mega e superomistico ("una lucida e visionaria follia"), si era imposto di realizzare per l'Italia, per il mondo e per se stesso.

Ma il punto è che nel frattempo anche a Napolitano la Costituzione assegnerebbe qualche compituccio da svolgere, per il paese. Per farla breve: a suo modo, su una quantità di decisioni e materie il presidente della Repubblica ha svolto il classico e scomodo ruolo del contrappeso – o del guastafeste, nell'ottica berlusconiana. L'elenco è lungo: scelta del Guardasigilli, uso dell'esercito, intercettazioni, lodo Alfano, sicurezza, giustizia, eccesso di decreti leggi, informazione e chissà cosa altro di cui non si è avuta notizia. Quando non riusciva a bloccare o ad addomesticare qualche provvedimento, si è capito benissimo che Napolitano era in disaccordo, con il crescente fastidio del Cavaliere. Che ieri evidentemente ha intravisto l'occasione di un bluff che sa anche di redde rationem . O viceversa.

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Storia incompiuta, dopo tutto, e irta di possibili conclusioni. In epoca post-ideologica si consiglia di seguirla adeguando ai tradizionali parametri nuovi criteri interpretativi, magari anche alla luce di un testo che Laura Bazzicalupo, filosofa della politica, ha dedicato per Il Mulino al primo dei vizi capitali, radice e culmine di ogni altro peccato: "Superbia" (145 pagine appena, 12 euro). Il Cavaliere non è mai nominato, ma è come se ci fosse dall'inizio alla fine.


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Pantaleo Gianfreda