La fine del regime.

31 Luglio 2010 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Un governo balneare, di fine regime, è tutto quello che resta della grande illusione berlusconiana. Prometteva di cambiare l'Italia e di durare per "almeno tre legislature". Dopo la rottura definitiva decretata ufficialmente da Fini, è quasi certo che il Berlusconi Terzo, nato due anni fa con la più schiacciante maggioranza parlamentare della storia repubblicana, non arriverà a concludere nemmeno la sua prima legislatura. Ma con la giornata di ieri non tramonta solo un'illusione di governo.

Muore anche l'illusione di una Nuova Destra, moderna ed europea, che in questo Paese, sotto le insegne del Cavaliere non ha e non avrà mai la possibilità di esistere. É in nome di questa Destra impossibile che Gianfranco Fini ha consumato il suo strappo. E stavolta è uno strappo vero e non più sanabile. Stavolta non siamo "alle comiche finali", come l'allora leader di An disse sprezzante tre anni fa di fronte alla Rivoluzione del Predellino, salvo poi salirci a sua volta per "co-fondare" (turandosi il naso) il Partito del Popolo delle Libertà. Stavolta Fini, reagendo alla "purga" berlusconiana del giorno prima, stila il certificato di morte definitiva di quel partito che ha contribuito a costruire, ma nel quale è sempre stato trattato, alternativamente, o da ospite, o da estraneo o da intruso.

In quella scarna ma esiziale cartella di testo letta dal presidente della Camera è riassunta davvero la "brutta pagina" di storia di questo centrodestra. Che non è stata scritta nell'epilogo di questi giorni, ma stava già tutta nel suo prologo di tre anni fa. Era tutto già chiaro, per chi avesse voluto capire, al congresso fondativo del Pdl. Già Fini tracciò la linea del Piave di un'"altra Destra", incompatibile con quella berlusconiana. Una destra costituzionale, repubblicana, laica. Non incostituzionale, populista, atea devota (come quella del Cavaliere). E nemmeno a-costituzionale, secessionista, pagana (come quella del Senatur). Già lì Fini osò l'inosabile, chiedendo a Berlusconi di non essere più Berlusconi: cioè di accettare il pluralismo delle idee e di rispettare la diversità delle opinioni, di inseguire l'interesse collettivo e di valorizzare la democrazia parlamentare, di tutelare i diritti delle persone e di difendere le istituzioni. Già lì Fini comprese, sia pure senza dirlo, l'impraticabilità della scommessa: invitò la sua gente, che scioglieva da Alleanza Nazionale, a "non aver paura di lasciare la casa del padre", ma sapeva in cuor suo che la "nuova casa" sarebbe stata un misto tra un casino e una caserma, e che il "nuovo padre" sarebbe stato un misto tra un padrino e un padrone.

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Così é stato, da allora. Questi due anni narrano la cronaca di un partito mai nato. Le due destre, contaminate da una terza destra di Bossi, non potevano convivere, ma solo confliggere. È quello che è accaduto, e che il documento di Fini fotografa fedelmente. Questo Pdl, persino più del Pd, è il vero "amalgama mal riuscito" della politica italiana. Il collasso avviene sulla legalità, che non a caso (insieme alla "giustizia sociale" e all'"amor di patria") è la piattaforma identitaria che Fini rivendica e rilancia. E non a caso, proprio sulla legalità, il cofondatore porta l'attacco più duro al cuore del berlusconismo, quando dice "onoreremo il patto con milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell'ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità".

Parole semplici e chiare, che negano alla radice una legislatura finora interamente vissuta dal premier all'insegna della "politica ad personam", dove l'interesse di un singolo o di una casta ha fatto premio su tutto il resto. Ma il divorzio poteva avvenire su altro. E in questi mesi ha più o meno incubato su tutti i fronti dell'azione di  governo: dall'immigrazione all'economia. Perché su tutto le differenze erano e sono rimaste irriducibili, com'era ovvio per il dna di due culture politiche incomparabili  e com'era stato plasticamente dimostrato nella  drammatica direzione del Pdl in cui i due leader (che ne sono portatori) hanno inscenato per la prima volta in pubblico uno scontro non solo ideologico, ma addirittura fisico. Era un patto con il Diavolo, quello di Fini. Non poteva reggere, e non ha retto. Non puoi credere che Berlusconi possa diventare De Gasperi, e nemmeno che possa scimmiottare Andreotti: cioè rassegnarsi ad essere il segretario di un vero partito di massa dei moderati e dei conservatori. Berlusconi é un capo, é il prototipo degli illiberali, e coltiva una visione proprietaria delle istituzioni e gregaria dei partiti. Fini lo scrive testualmente, nel suo documento, rivendicando la presidenza della Camera (che non é ovviamente nelle disponibilità del presidente del Consiglio, checché ne dica citando a sproposito un Pertini del '69) e contestando al Cavaliere la "logica aziendale" con la quale amministra la cosa pubblica (che non può obbligare la terza carica dello Stato a comportarsi come un "amministratore delegato").

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"Cesarismo carismatico" è la formula che, riecheggiando impropriamente il "centralismo democratico" del vecchio Pci, riflette al meglio la natura del potere berlusconiano. Un ossimoro vagamente moroteo, che  dimostra l'evidenza di un fatto, a Fini e a tutti coloro che vogliono coglierla: dove c'è un Cesare non può esserci una democrazia. Questo, dunque, è l'abisso che oggi separa le due destre, e nel quale sprofonda per sempre non solo il Pdl, ma lo stesso governo che ne era l'emanazione diretta. Solo i patetici cantori di regime possono affermare che "ora il Pdl e il governo sono più forti di prima". Idiozie da Tg1, che non funzionano più nemmeno in Transatlantico.

Da ieri, con l'uscita dei finiani e la nascita del gruppo autonomo Futuro e Libertà, il Pdl ha cessato di esistere politicamente, e il governo ha cominciato  a sopravvivere pericolosamente. A dispetto della sofferta sicumera del premier, Fini ha argomenti e numeri per mettere alle corde questa maggioranza disgregata e disperata, ormai ad esclusiva trazione forzaleghista. Dalle intercettazioni al federalismo, dalla manovra alla fecondazione assistita, per l'autunno si profila un rovinoso e rischioso Vietnam parlamentare. Il sostegno apparente che la pattuglia del presidente della Camera promette all'esecutivo, condizionato ai singoli provvedimenti e al rispetto dell'interesse generale, vuol dire in realtà una sola cosa. Per Fini é iniziata la stagione delle mani libere. Non sappiamo dove lo porterà. Ma sappiamo che da oggi, specularmente, Berlusconi e il suo governo hanno le mani legate. C'è un solo modo, per sciogliere la corda. Dichiarare la resa. E affidarsi senza condizioni (meno che mai quelle assurde, come le elezioni anticipate) alle sole mani che contano in questo momento: quelle del presidente della Repubblica.


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Pantaleo Gianfreda
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