Un gruppo d’infiltrati a Palazzo Chigi.

28 Novembre 2010 Off Di Pantaleo Gianfreda
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L’idea d’un complotto anti-italiano è stupefacente ma non è nuova. Il più illustre predecessore fu Benito Mussolini che la lanciò nel 1935, all’epoca delle sanzioni che ci furono comminate dalla Società delle Nazioni per la nostra aggressione contro l’Abissinia. Motore del complotto era allora il blocco “demo-giudo-plutocratico” che secondo i fascisti dominava il mondo e voleva affondare l’Italia per impedirle di conquistare il “posto al sole” che ci spettava. Ma c’erano già stati altri precedenti altrettanto illustri: Vittorio Emanuele Orlando che aveva abbandonato il Congresso della pace di Versailles nel 1919 perché le potenze alleate non volevano riconoscerci l’Istria e, subito dopo, D’Annunzio a Fiume innalzando la bandiera della “vittoria tradita”.

Tra le qualità e i vizi degli italiani uno dei tratti ricorrenti è quello del vittimismo. Silvio Berlusconi è un asso in materia.
Nel caso attuale mancano tuttavia del tutto gli appigli, sia pur pretestuosi, che giustifichino la tesi del complotto. Mettono insieme il crollo di Pompei, i rifiuti di Napoli, il processo alla Finmeccanica e le imminenti rivelazioni del sito WikiLeaks. Sembra il frutto d’un gruppo di matti che si sia infiltrato a Palazzo Chigi nella sala del Consiglio dei ministri o invece di una abilissima sceneggiata da usare per riguadagnare un consenso perduto e prepararsi alla campagna elettorale con un alibi che faccia presa appunto sul vittimismo nazionale.
Personalmente propendo per entrambe queste ipotesi: gli autori della sceneggiata sono abilissimi proprio perché sono matti, hanno perso il controllo delle proprie menti e affidano a comunicati ufficiali la loro impazzita creatività propagandistica.
Ma l’aspetto più stupefacente e inquietante non è che quel comunicato del governo sia scaturito dalla mente di Berlusconi e che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, abbia accettato di farsene protagonista. L’aspetto stupefacente è che il comunicato sia stato diramato con la firma di Gianni Letta. Un uomo prudentissimo, consapevole del danno d’immagine e di sostanza che un documento di quel genere avrebbe causato al governo e al paese. Questo è veramente il segno che siamo alla frutta. In queste condizioni la permanenza di quel governo e di quel premier fa venire in mente la “nave dei folli” e costituisce il più preoccupante motivo d’insicurezza che pesa sul destino dell’Italia.
 
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Il Presidente della Repubblica, sia venerdì sia di nuovo ieri, ha attirato l’attenzione delle forze politiche e della pubblica opinione sui pericoli che minacciano l’euro e la stessa Unione europea. La crisi irlandese non è affatto superata, si attende col fiato sospeso la riunione di domani dell’Ecofin e le reazioni dei mercati. La speculazione ha messo sotto tiro anche il Portogallo e la Spagna. I debiti sovrani di quei paesi sono sotto la lente delle agenzie di “rating” e così pure le banche di mezza Europa che hanno largamente investito in titoli spagnoli.
Il debito italiano parrebbe al sicuro e così pure il nostro sistema bancario, ma è comunque il debito più alto del mondo. Questa situazione giustifica ampiamente gli appelli al senso di responsabilità lanciati da Giorgio Napolitano.
Quegli appelli sono rivolti a tutte le forze politiche ma non indicano quale sia il percorso auspicabile da seguire né si può chiedere al Capo dello Stato di indicarlo. La più alta carica istituzionale non può gestire una crisi politica che s’incrocia con una crisi economica di questa fatta prima che essa sia stata formalmente aperta.
Conosciamo tuttavia i dati di fatto che possono guidare le decisioni di Napolitano quando sarà lui a doverle prendere.
Elenchiamoli quei dati di fatto.
1. Il 14 dicembre il Parlamento deciderà sulla fiducia al governo. Se le Camere voteranno in suo favore, Napolitano non avrà ragione di intervenire; si limiterà a vigilare stimolando il governo ad attuare una politica economica in sintonia con l’Europa e riforme equilibrate della giustizia e del federalismo.
Purtroppo non pare che quella della giustizia, che sarà presentata martedì prossimo al Consiglio dei ministri, abbia i requisiti di equilibrio che sarebbero necessari per riscuotere il consenso di un’ampia maggioranza. Il federalismo si trova purtroppo in analoghe condizioni.
2. Se il governo sarà sfiduciato anche in una sola Camera, Berlusconi dovrà dimettersi né il Capo dello Stato potrà rinviarlo in Parlamento per verificare quello che è già stato verificato. A quel punto il Quirinale dovrà accertare se esistono le condizioni per formare un nuovo governo.
3. L’appello alla gravità della situazione economica - se ha un senso e certamente ce l’ha - porta ad escludere che Napolitano sciolga le Camere se avrà la fondata speranza di poter insediare un nuovo governo capace di ottenere la fiducia del Parlamento.
La via delle elezioni significa nel caso migliore tre mesi di una barca con un timoniere azzoppato in un mare in tempesta; tre mesi di mercati sottoposti ad una speculazione micidiale.
Da questo punto di vista l’appello del Quirinale al senso di responsabilità sembra rivolto al fronte berlusconiano affinché accetti ed eventualmente appoggi il nuovo governo e al fronte opposto affinché si metta in grado di offrire una piattaforma il più possibile coesa.
4. Qualora il fronte delle opposizioni non sia in grado di esprimere una volontà all’altezza della situazione, si aprirebbe una subordinata: un governo di minoranza che si regga sull’astensione dei finiani e dei centristi ma abbia però al primo punto del programma la revisione sostanziale della legge elettorale oltre ovviamente ad una tenuta coerente della politica economica.
5. Se nessuna di queste ipotesi si verificasse e la sola via restasse quella dello scioglimento delle Camere, la nave Italia entrerebbe nella tempesta, che è appunto l’ipotesi che il Capo dello Stato, con ragione, teme di più. O almeno: così sembra a noi ragionando sui dati di fatto e sulla logica che ne consegue.
 
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Ma quanto durerà la tempesta economica e con quali possibili sbocchi? Purtroppo durerà. Certamente per tutto il 2011, probabilmente ancora nel 2012 con effetti sperabilmente attenuati ma non ancora scomparsi nel 2013.
Almeno per quanto riguarda l’Italia il calendario è questo (ma il governo dava per tutto finito già nel 2009).
Queste previsioni poggiano purtroppo su un esame nient’affatto fantasioso ma realistico della nostra situazione economica. Siamo un paese a crescita zero da almeno dieci anni, con una disoccupazione media che, considerando anche la cassa integrazione in deroga, viaggia sopra al 10 per cento come media nazionale, con una media vicina al 20 nelle regioni meridionali.
La disoccupazione dei giovani nella media nazionale è al 20 per cento, nel Mezzogiorno al 30. Tra i giovani con lauree umanistiche e professionali il tasso nel Sud si colloca sul 50 e gli occupati di solito fanno i lavapiatti o i camerieri. Vivono a carico dei genitori e dei nonni, per cui la famiglia è diventata il principale ammortizzatore sociale esistente.
In questa situazione si colloca un debito pubblico che si trova al 118 per cento e raggiungerà il 120 l’anno prossimo con la prospettiva che l’Unione europea, sotto la spinta della Germania e della Francia, prescriva l’obbligo di rientrare entro il 2013 nel limite del 60 per cento rispetto al Pil.
Queste sono le dimensioni del problema che dovrà essere affrontato dall’Ecofin, dalla Commissione di Bruxelles e dalla Banca centrale europea entro il prossimo febbraio. Se fosse accettata la proposta della Commissione sul rientro del debito entro la soglia del 60 per cento, l’Italia dovrebbe compiere tra il 2011 e il 2013 una manovra complessiva che, per quanto riguarda il solo debito, ammonterebbe a 45 mila miliardi annui. Cifra stratosferica e sicuramente negoziabile. Ma di quanto negoziabile? La speranza è d’un rientro fino all’80 per cento del Pil o di una rateizzazione decennale. La previsione più probabile è quella di un accordo dell’ordine di 30 miliardi in tre anni o di 15 miliardi in dieci anni. Una parte di questa cifra può essere reperita dalla graduale diminuzione degli oneri che stiamo attualmente pagando sul debito. Il resto è un esborso netto che non può certo provenire da ulteriori aumenti del fabbisogno finanziario.
Tutto questo ragionamento significa che non ci sarà posto per provvedimenti di crescita perché, a legislazione vigente, mancano le risorse, la spesa corrente continua a crescere nonostante i tagli, le entrate diminuiscono a causa del rallentamento della produzione e dell’aumento dell’evasione.
Lo scenario è dunque quello di una deflazione allarmante. A meno che l’Unione europea non decida di far crescere l’inflazione per diminuire il peso reale dei debiti.
Sarebbe una via di fuga che scaricherebbe il peso dell’imposta-inflazione sui redditi fissi. Ma c’è da escludere che la Germania accetti una politica di questo genere che penalizzerebbe le esportazioni.
Dunque deflazione per almeno tre anni, a meno che….
A meno che non si faccia una riforma fiscale che tassi il patrimonio in favore dei redditi medio-bassi, dei consumi, del lavoro e delle imprese. Basta enumerare queste necessità per capire che non è certo un governo Berlusconi- Tremonti a poter effettuare scelte di questo tipo.
 
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La presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha fatto parlare di sé la scorsa settimana con la proposta di un federalismo a doppia velocità: subito nelle regioni più ricche a cominciare dalla Lombardia, dal Veneto e dal Piemonte, rinviandolo invece per le regioni povere. Questa proposta è stata lanciata in un’assemblea di industriali a Milano e ripetuta dalla Marcegaglia a Treviso e diffusa ampiamente dai giornali e dalle televisioni. Gli industriali delle zone interessate hanno applaudito con ovazioni da stadio il loro presidente.
Ebbene, a nostro avviso, si tratta d’una proposta totalmente sbagliata che avrebbe nefasti effetti politici, sociali ed economici.
Politici. Si statuisce di fatto una secessione lenta della Padania dal resto del paese provocando nel sud reazioni politiche e sociali di dimensioni non valutabili. Il Sud vedrebbe sancita la sua condizione di territorio assistito con fondi provenienti dallo Stato, cioè dai contribuenti di tutto il resto d’Italia: una regressione non tollerabile e fonte di reazioni molto accese.
Economici. La spaccatura in due del mercato con tutto quello di imprevedibile che ne consegue a cominciare da un sistema bancario sottoposto ad una torsione radicale nella raccolta dei depositi e nel loro impiego “territoriale”.
Sociali. La fine d’ogni coesione e di ogni omogeneità contrattuale.
La stessa Marcegaglia ha successivamente tentato di limitare la sua proposta alla sburocratizzazione del Nord.
Proposta più accettabile che però può per essere effettuata senza bisogno di tirare in ballo il federalismo. Uno Stato federale non può che estendersi all’intero territorio nazionale. Federare solo le regioni ricche tra loro è una contraddizione in termini. Significa semplicemente affidare ad esse l’egemonia economica e politica degradando le regioni povere ad un rango coloniale. L’India fu decolonizzata dall’Inghilterra nel 1945. Degradare a rango di colonia l’Italia peninsulare da Firenze in giù nel 2010 significa camminare con i paraocchi come i cavalli.

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Pantaleo Gianfreda
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