Una scelta impegnativa di saggia fermezza.
28 Marzo 2010L'editoriale di Eugenio Scalfari su "la Repubblica" di domenica 28 marzo.
Molti giudicano questa lunga campagna elettorale come la più brutta che ci sia mai stata, ma non è vero. È stata come le altre. Io ne ricordo moltissime; il mio primo voto lo diedi nel referendum del 1946, perciò le ho viste tutte e ad alcune ho anche attivamente partecipato. Ricordo i baffoni di Stalin e gli insulti ai «forchettoni» della Dc che campeggiavano nei manifesti del Partito comunista e ? dalla parte opposta ? le madonne pellegrine portate in giro per l'Italia e gli impiccati a Budapest e a Praga nei manifesti della Democrazia cristiana.
Questa che oggi si conclude è stata un caleidoscopio di fatti interni e internazionali sconnessi tra loro ma ricuciti dal possibile influsso sulla psiche degli elettori che oggi andranno o non andranno alle urne. Per eleggere tredici presidenti di Regione, alcuni presidenti di Province e sindaci di Comuni: 41 milioni di cittadini, un campione imponente di popolo sovrano bombardato dai messaggi della televisione. Pesa o non pesa la televisione sul voto degli elettori? Alcuni esperti dicono di sì, altri di no. Io dico che pesa poco per quello che dice, ma pesa moltissimo per quello che non dice.
Dove manca il pluralismo delle voci e il racconto della realtà si sviluppa su un unico spartito senza contraddittorio, il peso può essere decisivo. Tutti i regimi autoritari o addirittura dittatoriali si reggono proprio su questo elemento mediatico: un racconto monocorde dei fatti che ha come scopo quello di trasformare il voto democratico in un plebiscito all'insegna degli slogan prevalenti.Nonostante questa indubitabile prevalenza mediatica di una sola parte sulle altre, questa volta qualcosa è cambiato. Forse non molto, ma qualcosa sì. Ho riletto gli appunti del mio taccuino dove ho scritto le emozioni più vivaci registrate nei giorni scorsi. Quelle che ho ancora davanti agli occhi mentre tra poco andrò ad imbucare la mia scheda nell'urna, sono tre.
La prima è il giuramento dei tredici candidati governatori di centrodestra nelle mani di Berlusconi sul palco di piazza San Giovanni: una scena grottesca, di una scorrettezza costituzionale macroscopica. La seconda avviene a Torino durante un comizio di Berlusconi insieme al candidato leghista Cota. Il presidente del Consiglio, dopo aver ricordato che tra gli obiettivi che il governo si è dato c'è quello di sconfiggere il cancro nei prossimi tre anni (una promessa che batte ogni record di incredibilità in una campagna elettorale) si impegna a dotare il Piemonte d'un grande centro d'eccellenza oncologica se Cota vincerà le elezioni. Se le perderà il centro oncologico non ci sarà. Insomma le cure anticancro sono subordinate alla vittoria di Cota. Non vi sembra pazzesco?
La terza emozione l'ho avuta quando, seguendo lo spettacolo di Santoro la sera di giovedì scorso dal Paladozza di Bologna, ho visto le interrogazioni che Mussolini rivolgeva alla folla radunata in piazza, seguite dalle analoghe interrogazioni che Berlusconi propone a sua volta al pubblico dei suoi club «meno male che Silvio c'è». Un'analogia sconvolgente. Si dice: quella di Mussolini era una tragedia e questa d'oggi è una farsa. È vero, con l'avvertenza tuttavia che anche le farse possono finire in tragedia quando hanno come effetto quello di manipolare la pubblica opinione.
Tre episodi, tre emozioni. Su di me hanno avuto l'effetto di confermare il mio sentimento di pericolosità per i colpi che atteggiamenti del genere da parte di un personaggio che ricopre una delle massime cariche dello Stato sferrano sull'assetto democratico del Paese. Per completare il quadro sono rispuntati fuori gli anarchici insurrezionalisti, inviando buste con dentro polvere da sparo o bossoli di rivoltella. Costa solo un francobollo mandare in giro messaggi deliranti. Ma hanno un loro obiettivo: quello di ottenere un effetto mediatico. A vantaggio di chi?
Il signor B, come molti scrivono per risparmiare lo spazio di scrittura, ha detto ieri nelle sue sette apparizioni televisive «a reti unificate» che il risultato di queste elezioni non avrà alcun effetto sul governo da lui presieduto che proseguirà la sua proficua attività fino alla fine della legislatura.
Non è vero, un effetto lo avrà. Se perderà, la «fin de règne» subirà una forte accelerazione; se vincerà, le spinte verso lo stravolgimento costituzionale per un regime autoritario diventerà devastante. Lo si capisce dall'elenco delle riforme da lui stesso elencate: subito una «grande grande riforma della giustizia», la legge sulle intercettazioni, il presidenzialismo con l'antipasto di un voto nei gazebo del Popolo della Libertà. Tre pietre miliari per l'assetto autoritario e cioè, in parole semplici: il ritorno dei Procuratori del Re, la censura sulla stampa e sulle televisioni e infine tutto il potere nelle mani di un solo uomo. Prospettive fosche. L'opposizione si batterà per arginare uno «tsunami» di simili dimensioni, ma sarà come affrontare con archi e frecce un esercito di carri armati. In «Avatar» gli armati di archi e frecce sconfiggono i carri armati, ma l'ipotesi che una impresa del genere si avveri nella realtà mi sembra azzardata. L'occasione di fermarli è oggi, domani sarà molto più difficile. Lo sanno anche Fini e Casini, ma non sembra abbiano scelto le mosse giuste in questa campagna elettorale.
Resta da esaminare chi potrà cantar vittoria domani sera a schede scrutinate. I protagonisti si sono tenuti prudenti; Lui ha fissato l'asticella della vittoria a quattro Regioni: Lombardia, Veneto, Campania, Calabria; Bersani a sette Regioni su tredici in lizza: Emilia, Toscana, Marche, Umbria, Liguria, Basilicata, Puglia. Ma le cose non stanno esattamente così. Affinché ci sia una vittoria del centrodestra occorre che, oltre alle quattro regioni già sicure, si aggiungano il Lazio e il Piemonte. Anche per il centrosinistra, in aggiunta alle sette già indicate, ci vuole l'aggiunta del Lazio e del Piemonte.
Ciò significa che sarà il risultato di Roma e di Torino a decidere la partita. Il Lazio soprattutto, ed è proprio in Lazio che invece sia Casini sia Fini hanno scelto la parte sbagliata puntando sull'equivoco Polverini. Un equivoco e non a caso Polverini ha giurato insieme agli altri dodici «apostoli» sul palco di piazza San Giovanni nelle mani dell'Imperatore dimenticando che un presidente di Regione eletto dal popolo non può che giurare sulla Costituzione.
Nelle due regioni decisive il risultato è più che mai nelle mani degli indecisi. Se gli indecisi che votarono centrodestra nelle precedenti elezioni si asterranno e se gli indecisi di centrosinistra andranno invece a votare, la vittoria sarà a sinistra; se avverrà il contrario l'esito premierà il signor B. Questa è la posta e queste le condizioni della partita.
Non è dunque un caso che il recente pronunciamento del cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale, sia stato un oggetto contundente mirato contro la Bonino e la Bresso. Scagliato nell'ultima settimana elettorale e stentatamente rappezzato due giorni dopo con un documento dei Vescovi liguri che valorizzava il tema del lavoro e dell'accoglienza degli immigrati allo stesso livello della scomunica vescovile contro l'aborto e il controllo delle nascite. Peggio la pezza del buco.
La risposta della Bonino e della Bresso è stata ineccepibile dal punto di vista della logica: la legge e il referendum che hanno disciplinato quella delicatissima materia non sono stati in favore dell'aborto ma contro l'aborto clandestino ed hanno avuto infatti l'effetto di farne diminuirne il numero.
Questa logica avrebbe dovuto essere ben presente al cardinal Bagnasco e ai Vescovi italiani; invece hanno puntato anche loro non sulla ragione ma sull'emotività dimenticando perfino che l'intera questione non ha alcuna pertinenza con le Regioni ma riguarda il Parlamento nazionale.
Si è dunque voluto consapevolmente intervenire in favore di uno schieramento politico contro l'altro. È accettabile un intervento di questa natura e di queste dimensioni? Un intervento ad orologeria, sette giorni prima d'un appuntamento elettorale?
Alcuni «terzisti» professionali raccomandano di non ridurre quest'improvvida iniziativa episcopale al «solito scontro tra clericali e laicisti». Hanno ragione, ma qui non si tratta di clericali, bensì dell'episcopato italiano e di chi pretende di rappresentarlo. Se la pretesa non fosse legittima i dissenzienti dovrebbero dissociarsene con la tanto invocata trasparenza. Se non lo fanno significa che le loro opinioni sono conformi a quelle di chi presiede la Cei. Comunque i Vescovi non meritano l'appellativo di clericali: sono a tutti gli effetti i discendenti degli apostoli, quelli ai quali Gesù dette il potere di «legare o sciogliere»; sono i depositari della predicazione, della dottrina e del pastorale esercizio della cura delle anime ad essi affidate.
Quanto ai laicisti, non so chi siano. Ci sono i laici, che siano credenti o non credenti o diversamente credenti.
La discussione nel caso specifico riguarda i tre lati di un triangolo: i Vescovi, i laici, lo Stato italiano che è ? o dovrebbe essere ? uno Stato laico. La Chiesa ha legittimamente uno spazio pubblico nel quale può propagandare le sue idee in piena libertà, come qualsiasi altra entità, associazione, partito, cittadini. Deve tuttavia astenersi dalla prescrizione di un voto elettorale così come deve astenersi dall'interferire sui comportamenti dei cattolici che abbiano incarichi elettivi e istituzionali.
Noi laici abbiamo il diritto di reagire ad interferenze indebite. Quanto allo Stato, esso dovrebbe reagire con vigore di fronte ad un episcopato che impone agli elettori di votare in un certo modo parlando di valori non negoziabili. Chi decide sulla negoziabilità: i Vescovi o la coscienza individuale? Lo Stato ha il dovere di difendere la libertà di coscienza che è un valore costituzionalmente protetto. Se non lo fa, si tratta d'una mancanza grave e censurabile. Noi lamentiamo che il governo della Repubblica non abbia inviato una nota di protesta alla Segreteria di Stato del Vaticano o al Nunzio che la rappresenta. I Vescovi e i preti sono cittadini italiani agli effetti civili, ma al tempo stesso fanno parte integrante di quella che si chiama «gerarchia ecclesiastica». Hanno pertanto una doppia veste e sta al loro senso di responsabilità di saper scegliere quale debbano indossare nelle diverse mansioni o occasioni del loro esercizio pastorale. Se sbagliano, spetta alle istituzioni laiche richiamarli alla misura e al senso di responsabilità.
Capiamo bene che la Chiesa nel suo complesso si trova proprio in questi giorni alle prese con problemi di delicatissima natura. Proprio quei problemi avrebbero dovuto suggerire alla gerarchia di non avventurarsi in prescrizioni e divieti in casa altrui proprio mentre si scopre che prescrizioni, divieti e trasparenza di comportamenti sono troppo spesso mancati in casa propria. Non stiamo parlando di peccati ma di reati non denunciati quando bisognava e bisogna farlo e sul giudizio dei quali è titolare la giurisdizione dei vari paesi dove quei reati sono stati commessi.
I cittadini decideranno oggi e domani a chi affidare la guida di molte Regioni, Province, Comuni. Ed anche se vorranno arrestare un'incipiente zoppia che incombe sulla democrazia italiana. Si tratta dunque d'una scelta estremamente impegnativa. Non facciamo ricorso a parole come amore e odio, non pertinenti al governo della «res publica». Invochiamo saggezza e responsabilità e ci auguriamo che sia questo il criterio che gli elettori adotteranno.