8 marzo: auguri a tutte le donne

8 Marzo 2010 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Per un 8 marzo di piena consapevolezza: con le parole e con la testa

8 marzo: è la Festa della donna. Auguri a tutte le donne!

Pochi, però, forse sanno che l’istituzione della Festa dell’8 marzo data da una terribile tragedia.

Essa risale al lontano 1908, quando, pochi giorni prima di questa data, a New York, le operaie dell'industria tessile Cotton scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui erano costrette a lavorare. Lo sciopero si protrasse per alcuni giorni, finché l'8 marzo il proprietario Mr. Johnson bloccò tutte le porte della fabbrica per impedire alle operaie di uscire. Allo stabilimento venne appiccato il fuoco e le 129 operaie prigioniere all'interno morirono arse dalle fiamme. Successivamente questa data venne proposta come giornata di lotta internazionale, a favore delle donne, da Rosa Luxemburg, proprio in ricordo della tragedia.

Di seguito un articolo di Paola Boccardo, della CGIL provinciale, sulla ricorrenza della festività (da ilpaesenuovo.it).  

Una politica da declinare al femminile. Perché parlare dell’8 marzo nel 2010? Perché oggi più che mai occorre far capire che la questione femminile è un problema che investe tutta la società. Per questo occorre una presa di coscienza collettiva, senza cadere in facili strumentalizzazioni.

Questo è lo sforzo che molte donne ogni anno fanno: far sì che non sia una giornata legata a una mera operazione consumistica, ma sia una giornata di significato e di contenuto, che rivendica nuovo protagonismo sociale e politico per le donne.

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Scegliamo questa giornata per parlare ancora una volta delle donne. Scegliamo l’8 marzo perché la cultura di non ricordare non ci appartiene.

Non si tratta di voler fare una celebrazione commemorativa. Le donne si misurano ogni giorno con la propria condizione, con il problema della gestione del ruolo nella famiglia e nella società, con le opportunità conquistate e con quelle ancora, sempre, negate.

Il tema dell’emancipazione non è, ahinoi, superato: i diritti delle donne sono spesso violati; c’è ancora bisogno di garantire, anche attraverso misure sanzionatrici, la sola presenza delle donne nei luoghi decisionali; gli stereotipi resistono tenacemente.

La crisi economica e finanziaria, ma anche quella politica e culturale, non fa altro che acuire queste difficoltà. Anzi, si consolida un tipo di società in cui lo sfruttamento e la mercificazione del corpo delle donne è un modello sempre più ricorrente e accettato.

Un tipo di società in cui il lavoro di cura, svolto prevalentemente dalle donne, non ha né gratificazione, né valenza sociale.

Una società in cui, da una parte, si teorizza l’importanza della “risorsa donna”, in ogni luogo e settore, dall’altra si ripropongono modelli maschili, si nega, nei fatti e nei comportamenti, il principio della pari opportunità.

La conciliazione dei tempi di vita e di lavoro non può più restare un assunto astratto e inattuato. È un cambiamento che un Paese europeo, a cominciare dai territori provinciali e regionali, non può più rimandare, per il bene stesso del nostro sistema economico e produttivo.

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Le leggi esistenti vanno implementate e potenziate e vanno accompagnate da un processo di evoluzione culturale che parta dalla parità di genere.

Ogni giorno nel lavoro, nella politica, così come nel sindacato, le donne in primis devono guadagnarsi la possibilità di esprimere la loro personalità e professionalità, compiendo, passo dopo passo, un pezzo di strada in più nel cammino delle pari opportunità.

In questa direzione di cambiamento culturale, la scuola ha un ruolo fondamentale, perché è il luogo in cui nasce e si forma la società del domani. Riflettiamo anche su questo: al danno che si sta permettendo che si compia nella scuola, lasciando che vi si impongano regole che fanno della divisione e della discriminazione, di razza di religione e di genere, il criterio con cui organizzare le classi dei futuri cittadini. Cominciamo dalla scuola, poi, a insegnare il linguaggio delle pari opportunità. L’informazione ci insegna come sia possibile condizionare l’orientamento dell’opinione pubblica attraverso l’uso di alcune parole piuttosto che di altre: riappropriamoci del potere delle parole, perché la prima forma di discriminazione, si manifesta proprio nell’uso del linguaggio.

Facciamo anche in Italia quello che già avviene in Europa: impariamo a declinare al femminile le cariche e i ruoli che un tempo erano di esclusiva pertinenza maschile.


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Pantaleo Gianfreda
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