A Roma si presenta la nuova opera poetica di Irene Leo

27 Ottobre 2010 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Giovedì 4 novembre, ore 19.30, Zen.zero, via Santamaura, 60

Giovedì 4 novembre, alle ore 19.30, a Roma, presso Zen.zero (via Santamaura, 60), presentazione del nuovo libro di poesie di Irene Leo “Una terra che nessuno ha mai detto” (Edizioni delle sera, 2010)
Ne discuterà con l’autrice Matteo Chiavarone, critico letterario.
La seconda raccolta poetica di Irene Ester Leo, Una terra che nessuno ha mai detto, non è solo un libro di poesia ma una forte impellenza quasi fuori controllo che lascia sbocciare tra le righe, l’animo umano ed il suo specchio. Lo fa, partendo dal basso, dalla Terra di Pavese, stessa terra che svetta come indicazione preziosa nel titolo dell’opera, tratto da “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi” del ’45. Partendo da quella tendenza a trarre la bellezza dalla materia tangibile, come sintesi estrema e personificazione di amore e vita. Pertanto accesa di notevoli contrasti che oscillano tra rovi e beatitudine e che cercano un nome. La poesia, il verso, si fanno battesimo di quel nome, ma senza l’occhio che scruti e la voce che dica, non esiste alcunché e tutto si scolora. La materia umana, assieme alla sua imperfezione eccellente, è il mezzo privilegiato a varcare la soglia di questa visione a tratti onirica.
“Forte è il legame con la dimensione dell’origine, con la terra. La parola è solida, terrestre, precisa; la poetessa nomina con esattezza e cura la natura e il quotidiano in una sorta di mistica del concreto, in cui si confondono rilkianamente il terreno e l’ultraterreno”, scrive Andrea Leone nella prefazione al testo, evidenziando chiaramente in questo suo passaggio la chiave di volta strutturale di questi versi. E la follia, quale possibile soluzione, panacea o eterna domanda oltre a snodarsi in queste pagine si affaccia anche dall’epigrafe del corpo poetico, con le parolessenza del viandante di Nietzsche, che aprono ad una domanda: ”Perché questo batticuore fosco e impetuoso insegue proprio me?”.
Il verso assume un colore particolare, si fa mezzo e non fine, è allungato, teso ad abbracciare il senso narrativo, fino a diventare forza magnetica di quella Terra sempre nuova.

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Pantaleo Gianfreda
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