Caduto il privilegio, il premier va alla guerra.

14 Gennaio 2011 Off Di Pantaleo Gianfreda
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C’è una confortante novità e un paio di pessime notizie. La buona nuova è questa: la Consulta demolisce la legge sul “legittimo impedimento”. Berlusconi se l’era affatturata per il presente e per il futuro; per i processi in corso a Milano e per le tegole che (non si mai e chi meglio di lui può saperlo) gli potrebbero piovere sul capo. Il premier ha pensato, e non è un mistero per nessuno: quei processi mi spaventano, posso obiettare che devo governare, posso dire che è il compito che mi ha assegnato il popolo sovrano e quindi che non ho tempo per i processi - ma nemmeno un pomeriggio, neanche due ore, nemmeno il sabato o la domenica: la mia agenda non ha buchi - e quelli i giudici che possono fare?
Devono rinviare l’udienza. Può bastarmi? Posso fidarmi? No che non posso. Una legge deve obbligarli, vincolarli – sì, costringerli – altrimenti corro dei rischi.

Nasce così la legge sul “legittimo impedimento” che, in attesa della sospirata immunità costituzionale, assicura al Cavaliere di non essere processato. L’arnese scelto è il più prepotente. Si può definire autocertificazione: è lo stesso capo del governo che dirà, senza alcun possibilità di essere contraddetto, di avere molto da fare. Magari per i sei mesi che vengono perché non conta soltanto l’impegno pubblico che rende legittimo l'”impedimento”, ma anche tutto il lavoro di prima e di dopo o comunque essenziale a far fronte a quell’appuntamento istituzionale. Chi può sindacare quanto tempo sia necessario? Quindi, il giudice – comanda la legge – deve prenderne atto e rinviare l’udienza perché l’arresto del processo è automatico.
Ecco, è su questo punto decisivo (chi decide se l’impedimento è legittimo?) che la Corte costituzionale cancella oggi l’abusiva “prerogativa” che il Sovrano s’era cucinato nel suo esclusivo interesse e illegittimamente perché con legge ordinaria e non costituzionale. Come ha già scritto qui Franco Cordero: eliminato l’automatismo, la legge si squaglia. La Consulta, con la sua sentenza, annulla l’autocertificazione all’impedimento del Cavaliere (l’automatismo) e restituisce al giudice il dovere di accertare, caso per caso, di volta in volta, se le ragioni che ostacolano la presenza in aula dell’imputato siano concrete o fasulle, come accade a ogni cittadino della Repubblica. Si ripristina così ciò che la legge sul legittimo impedimento ha manomesso: l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 della Costituzione).
Fin qui la notizia che rincuora, ma ce ne sono anche di pessime. Per lo meno un paio. La prima è che Berlusconi non ha alcuna intenzione di difendere la sua onorabilità nel solo luogo appropriato, l’aula del tribunale. In quel luogo – e in modo definitivo con la “sentenza Mills” – è stato documentato che egli è un corruttore, un bugiardo e uno spergiuro anche quando fa voto della “testa di figli e nipoti”. Un uomo, con un’altra idea della dignità personale e della responsabilità pubblica, filerebbe in quell’aula per dimostrare la sua correttezza e onestà. Non Berlusconi che si è fatto politico per scampare – e non è un mistero – da un passato di malaffare e come corruttore, bugiardo e spergiuro pretende di essere accettato dal Paese.
Il Cavaliere avrà buon gioco – altra pessima notizia – perché i processi che lo attendono a Milano presto diventeranno cenere. Tra le leggi che il Sovrano si è acconciato per farla franca (2001, rogatorie internazionali; 2002, legittimo sospetto; 2003, legge immunitaria Schifani; 2006, inappellabilità delle sentenze di proscioglimento; 2008, legge immunitaria Alfano), tutte sterili o cancellate dalla Corte Costituzionale, la più efficace per farla franca si è rivelata la riforma dei tempi della prescrizione (2005). È questa che soffocherà i processi di Milano. Cinque dei sette giudici che lo stavano giudicando a Milano per corruzione (Mills), frode fiscale (diritti tv Mediaset), appropriazione indebita (Mediatrade) sono stati trasferiti ad altro incarico. I dibattimenti dovranno dunque ricominciare di nuovo e daccapo e la possibilità che possano arrivare al verdetto definitivo della Cassazione è concreta come l’eventualità che Berlusconi accetti di farsi processare. Nelle prossime settimane e mesi assisteremo a uno spettacolo estenuante. Gli avvocati del Sovrano andranno in aula per sfruttare tutte le possibilità che la bocciatura parziale della legge sul legittimo impedimento lascia sul tavolo. La Consulta chiede ai giudici una leale collaborazione istituzionale e di accordare le necessità della giurisdizione con il dovere di governare. Il punto di equilibrio è difficile da trovare quando i diritti della difesa sono l’occasione non per fare luce nel processo, ma per tenersi lontano dal giudizio. Anche perché – facile previsione – Berlusconi non si farà mancare gli impegni soprattutto all’estero e i suoi legali useranno quell’agenda posticcia per scardinare i tempi del processo. È molto improbabile che i giudici del tribunale di Milano se la sentano di smascherare il gioco. Lo si è già detto. Se Berlusconi fosse un imputato qualunque, il tribunale stringerebbe i tempi e il “processo Mills”, che ha davanti un anno di tempo prima di “morire”, forse riuscirebbe a chiudersi anche in Cassazione. È il processo più sensibile e, in fondo, quello più limpido perché nei fatti si è già concluso quando anche dinanzi alla Cassazione – e quindi definitivamente – è stata accertato che l’avvocato inglese David Mills, architetto della galassia di società off-shore di Fininvest organizzata con il coinvolgimento “diretto e personale” del Cavaliere, è stato pagato per non dire la verità nei processi contro Craxi e gli ufficiali della Guardi di Finanza, corrotti dal tycoon di Arcore. La corruzione è un reato “a concorso necessario”: se Mills è stato corrotto, il presidente del consiglio (coimputato) è il corruttore. Per chiunque altro che non sia il capo del governo il processo, che ora ricomincerà a Milano, sarebbe una pura formalità. Tre e quattro udienze in primo grado. Un’udienza in appello. Un’udienza in Cassazione. Sentenza che passa in giudicato. Dodici mesi sono più che sufficienti perché nel caso degli “imputati in scadenza termini”, come si dice, i tribunali hanno l’obbligo di fare presto e bene non fosse altro per garantire i diritti di chi è stato offeso dal reato. Potrebbe avvenire anche per il processo Mills? Difficile. Meglio, impossibile. Il clima di perenne aggressione all’ordine giudiziario un segno lo ha lasciato. Gli abusi del sistema politico, governativo e mediatico (un caso per tutti, l’agguato denigratorio al giudice Mesiano “colpevole” di aver indossato calzini viola) provocano nelle toghe qualche impaccio superfluo che rallenta il processo. Da questo punto di vista, la sentenza della Consulta non aiuta perché prepara ai giudici di Milano un percorso ricco di trappole e complicazioni. Per dirne una, con il costituzionalista Alessandro Pace: come si potrà “coniugare l’indifferibilità dell’impedimento con l’esistenza di un’attività preparatoria e consequenziale”? È quanto questo lavoro che predispone e segue l’impegno pubblico del capo del governo potrà essere legittimamente lungo?
A pensarci, l’annichilimento per prescrizione dei processi di Milano non è nemmeno la notizia peggiore. La nuova davvero pessima la si scorge nelle manifeste intenzioni del premier. Lo si vede già muovere i fili con attenzione. Clamorosamente fallito come uomo che governa e modernizza finalmente il Paese, il Cavaliere affida il suo destino al solo congegno che conosce e controlla: le elezioni. In queste ore, con queste mosse – ieri la sortita a Berlino contro “l’ordine giudiziario fuoriuscito dall’alveo costituzionale”, oggi la catilinaria televisiva dalla tv di casa in compagnia di un dipendente – le sta preparando con cura mentre dice in pubblico – spudorato – di non volerle. Come sempre, ha bisogno di creare un “contratto emotivo” con gli elettori ricordando che la sua proposta politica è egli stesso. Che il suo destino è il destino di tutti. Che la sua persona e i suoi interessi privati sono gli interessi del Paese. È una strategia che funziona (in passato ha funzionato tre volte su cinque) quando ogni questione nazionale o espressione politica precipita in una conflittualità concreta che consente di dividere il Paese in amico e nemico. È un metodo che trasforma in una vuota astrazione ogni altro problema: il debito pubblico, il declino dell’Italia, il dramma delle giovani generazioni, il fallimento delle liberalizzazioni, lo Stato di diritto, i precetti della Carta costituzionale, la sovranità, il discredito dell’Italia nel mondo. Quel che conta è il Corpo mistico del Capo, al tempo stesso sovrano e popolo. Quel che conta è sapere qual è il nemico che minaccia il Capo e che quindi deve essere – dal popolo, dai membri del corpo mistico – contrastato e colpito.
Ecco la notizia pessima: Berlusconi si prepara al voto ed è intenzionato a far rotolare il Paese in un conflitto senza confini e il nemico da distruggere sarà la magistratura. Una magistratura che il Cavaliere vorrà rappresentare come nemica del popolo, della democrazia, dell’Italia, come appunto pare si chiamerà il suo nuovo partito. Se sei contro l’Italia (partito), sei contro l’Italia (nazione). “Quando si avoca a sé la piena rappresentatività della comunità nazionale e si disconosce la legittima cittadinanza dell’altro in quanto anti-nazionale è guerra civile”, sostiene Marco Rovelli. Si può anche non sapere se ci attende davvero una moderna “guerra civile”, è certo che Berlusconi sta preparando, a partire dai suoi contrasti con la giustizia, qualcosa di molto simile. 

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Pantaleo Gianfreda
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