E’ crollato il muro di Arcore. Ma anche la Lega ha perso.

31 Maggio 2011 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Adesso si può dire. Il Muro di Arcore è crollato. La vittoria schiacciante di Pisapia a Milano, l’affermazione netta del centrosinistra nei principali comuni del Nord, da Trieste a Mantova a Novara, è una svolta che non si può non definire storica. Cade la capitale del berlusconismo e della Padania. Si sfalda un sistema, si sfarina un blocco di potere, si sbriciola un modello politico, si frantuma un nucleo duro di interessi. È il collasso di un monolite che sembrava invincibile e impermeabile ai movimenti sociali e ai mutamenti economici. Insieme a questa Rivoluzione Settentrionale, si sconvolge la geografia politica del Sud, con un ciclone De Magistris a Napoli che fa piazza pulita, in un colpo solo, del bassolinismo e del cosentinismo, cioè delle due nomenklature che per anni si sono contese un territorio dominato dall’uso politico della criminalità e dalla mondezza.

 
Queste amministrative, palesemente caricate di un significato che valica i confini comunali e provinciali, marcano una sconfitta devastante per Berlusconi. Era stato il premier a parlare di “un test nazionale”. È stato il premier a spendersi in prima persona e a “metterci la faccia”. È il premier, adesso, a portare tutto intero il peso di questa clamorosa debacle. I milanesi non hanno creduto ai furori ideologici del Cavaliere che paventava l’arrivo dei cosacchi in Piazza Duomo, degli zingari a Piazza della Scala e dei drogati a Palazzo Marino. E questo test misura l’ormai palese inattendibilità politica e mediatica di un messaggio generale: gli italiani non credono più al presidente del Consiglio che a casa sua promette le “scosse all’economia”, e al G8 spaccia il suo Paese come una “dittatura dei giudici di sinistra”. Il sogno berlusconiano finisce qui, trasformato in un incubo.
L’uomo della Provvidenza non incanta più e i suoi “candidati deboli” non lo vogliono al loro fianco in campagna elettorale, perché ne percepiscono la metamorfosi negativa: il tocco magico è svanito, il “valore aggiunto” del televenditore si è trasformato nel “disvalore” del guitto. Ma con Berlusconi, a dispetto dei giudizi di Bossi, perde anche la Lega. Sbaragliata ovunque, nel cuore profondo della sua costituency elettorale. Obbligato a un sacrificio troppo alto, e alla fine esiziale, dal patto di sangue che lo lega al Cavaliere, adesso il Senatur non può che prendere atto della chiusura di un ciclo. E non può non tornare all’antica vocazione leghista, che esige un movimento libero e irresponsabile.
Vincono le opposizioni, tutte. Variamente aggregate dall’anti-berlusconismo, senz’altro, ma anche capaci di proporre un’offerta politica non scontata nelle persone, anche se ancora non compiuta nei contenuti. Vince il Pd, che strappa Torino e Bologna al primo turno, esprime 24 amministratori sui 29 vincenti in questa tornata elettorale, e che pur non portando al successo il suo candidato iniziale nelle sfide di Milano e Napoli, vede comunque premiata la sua lealtà di coalizione. Diventa irrinunciabile, a questo punto, una riflessione sui programmi e sulle alleanze. Ma intanto Bersani può incassare il ruolo, riconosciuto dagli elettori, che in questo momento compete al suo partito: fare da pivot di uno schieramento largo di forze, con un ruolo di motore e di federatore. Vincono le forze radicali della sinistra, dall’Idv di Di Pietro e De Magistris ai post-comunisti-ecologisti di Vendola e Ferrero: bisognerà farci i conti, senza smarrire la rotta riformista senza la quale non si intercetta il voto dell’area moderata della società italiana. Anche con questa, rappresentata da un Terzo Polo a sua volta in piena evoluzione, bisognerà fare i conti.
Ci sarà tempo, per ragionare di cosa può nascere dalle macerie del berlusconismo. Di come e quando archiviare un’esperienza di governo rovinosa e pericolosa. Di cosa costruire al suo posto, nelle due metà del campo finalmente sgomberate da un grumo di potere e di livore non più sostenibile né tollerabile. Ma di questo si tratta, oggi. Un tempo, a impedire il cambiamento italiano, c’era il Fattore K, e ce ne siamo liberati. Ora c’è il Fattore B, e stiamo per liberarcene.

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Pantaleo Gianfreda
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