Il cavaliere e il raìs due leader in fuga.

6 Febbraio 2011 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Tre giorni fa, mentre la sollevazione del popolo egiziano era arrivata al punto culminante, Silvio Berlusconi fu l’unico tra i dirigenti politici di paesi occidentali a dire che “Mubarak è un uomo saggio e bisogna lasciarlo dove sta. Sarà lui a fare le riforme e solo dopo potrà ritirarsi con onore”.

 
Berlusconi e Mubarak risultano dunque strettamente - e inconsapevolmente - legati tra loro in diversi modi. Il primo è Ruby-Rubacuori, pretesa nipote del presidente egiziano secondo quanto Berlusconi dichiarò alla questura di Milano per ottenere la liberazione della minorenne marocchina dalla custodia della polizia. Mubarak non ha mai saputo di questa “birboneria” congegnata dal presidente del Consiglio italiano tirandolo in ballo.
Il secondo elemento che li lega è la crisi politica che incombe su entrambi; estremamente drammatica quella che minaccia il leader egiziano che deve fronteggiare un paese in rivolta; molto diversa e pacifica quella in corso in Italia che tuttavia configura anch’essa la decomposizione d’un sistema di potere e sembra preannunciarne la fine.
Infine un terzo elemento: sia al Cairo che a Roma, in attesa che le due crisi trovino una soluzione, il potere effettivo non è più nelle mani dei due leader ma è passato ad altre forze di tutela; al Cairo l’esercito, a Roma la Lega Nord. Due forme di transizione che sottolineano in modi diversi ma analoghi il declino inarrestabile dei vecchi leader e l’inizio di una fase nuova e ancora ignota ma ormai inevitabile.
Mubarak e Berlusconi, due destini gemelli. Chi l’avrebbe immaginato appena qualche settimana fa?
 
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Le partite in corso qui da noi sono tre, distinte e conflittuali tra loro.
Quella che interessa la Lega è la partita del federalismo. Dovrebbe esser portata a compimento entro il prossimo maggio; se quella data sarà superata la sconfitta politica per Bossi sarà cocente.
Perciò la Lega la mette in cima nella scala delle priorità e ha deciso di gestirla in esclusiva schiacciando in angolo le priorità del suo alleato.
Le partite che interessano Berlusconi sono invece quella di sottrarsi ai processi e quella di avviare provvedimenti di crescita economica che rilancino un paese immobile, impagliato e mummificato. Anche per queste due partite il tempo a disposizione si conta ormai a settimane, ma per quanto riguarda lo scontro giudiziario addirittura a giorni.
Il Paese assiste. In realtà la sola partita che lo interessi veramente è quella economica che però le altre contese rischiano di relegare in seconda o terza fila. Su questo terreno dovrebbero entrare in campo le opposizioni unificando i loro intenti, i loro programmi e le loro iniziative. Se riusciranno a farlo avranno anche preparato quello schieramento unitario con il quale dovranno affrontare le elezioni che, da maggio in poi, potranno essere indette in qualunque momento.
 
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Il federalismo è partito col piede sbagliato e non è con le pezze di Calderoli che può essere recuperato e avviato sui giusti binari. Il tema dei costi standard è ancora tutto da discutere, ma non è neppur questo il punto essenziale.
Tremonti ha un suo “mantra” al quale nessuno ha mai creduto: minore burocrazia, minori spese, maggiori controlli dei governati sull’operato dei governanti.
Il mantra di Tremonti ha un difetto molto grave: non c’è una sola cifra che ne attesti la veridicità. Anzi: i decreti legislativi finora approvati o in corso d’approvazione dimostrano il contrario. I Comuni per ora sono alla fame; potranno avere un moderato sollievo tra tre anni. Intanto dispongono di risorse minime, ottenute con incrementi di sovraimposte e con tagli spesso crudeli di servizi. Regioni e Province stanno anche peggio. Lo stock degli impiegati aumenterà. I conflitti all’interno delle varie autonomie e con lo Stato aumenteranno anch’essi. Le diseguaglianze tra Comuni ricchi e poveri nella stessa area regionale e provinciale susciteranno continui conflitti di campanile. Bisognava accorpare i Comuni e abolire le Province prima di partire. Da ottomila Comuni a tremilacinquecento, questo era l’obiettivo e questa doveva essere la prima mossa d’un sistema di autonomie locali. E una politica del Mezzogiorno che diminuisse le diseguaglianze con il Nord.
Poiché niente di tutto ciò è stato fatto, avremo un sistema sgangherato di autonomie a due velocità e una selva di conflitti, rivalità, campanilismi e ulteriore decomposizione del sistema-paese. Di tutto questo Berlusconi se ne infischia ma - non sembri un paradosso - se ne infischia anche la Lega. Dopo il voto contrario della Bicamerale e lo sgarro costituzionale respinto giustamente da Napolitano, Bossi ha detto: “Quello che ci sta a cuore è che i soldi del Nord restino al Nord, il resto sono chiacchiere”.
Voce dal sen fuggita. Se questa è la sostanza che sta a cuore alla Lega, essa non sta combattendo per un sistema di autonomie ma per una politica secessionista. Assolutamente inaccettabile. Io non credo che il Nord, tutti gli italiani del Nord, vogliano un federalismo secessionista. Le forze politiche responsabili (ovviamente non quelle di Moffa) dovranno porre questa domanda agli elettori di Torino, di Bologna, di Genova. Forse avremo qualche positiva sorpresa se la domanda sarà fatta con chiarezza e convinzione.
 
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La politica di crescita. Ora la vuole anche Giuliano Ferrara, di nuovo nel ruolo di consigliere del Principe.
Sinceramente me ne rallegro, anche se le cognizioni economiche di Ferrara non risultano eccezionali, ma il “dominus” è Tremonti ed è a lui che bisogna guardare.
Il ministro dell’Economia è alla prese con la dottrina Merkel-Sarkozy-Trichet, che comporta rigore nei bilanci e riduzione dei debiti sovrani. È chiaro che per far fronte a questi criteri la crescita è indispensabile. Ma come si ottiene?
La risposta di Tremonti è questa: si ottiene con riforme senza spese, liberalizzazioni, vendita di patrimonio pubblico, aumento di produttività e di competitività. Un po’ di sgravi fiscali (spiccioli) per imprese e lavoratori.
Infine grande riforma del fisco (nel 2013 e anni seguenti).
Per intanto riscrittura dell’articolo 41 e abolizione dell’articolo 43 della Costituzione. Per poi, magari, abolire anche l’articolo 1, quello che recita “la Repubblica è fondata sul lavoro”.
Una parola sull’articolo 41 (e 43): sono due articoli contenuti nella prima parte della Costituzione quella dedicata ai principi ispiratori della nostra Carta. Per convenzione tra tutte le parti politiche e sociali, la prima parte della Carta non deve essere toccata. Questa convenzione è saltata? Si può intervenire su tutto? C’è stata una consultazione su questo delicatissimo argomento?
Aggiungo: poiché presumibilmente le opposizioni voteranno contro la riscrittura dell’articolo 41, si andrà al referendum confermativo, con la conseguenza che avremo per la prima volta nella storia repubblicana un referendum costituzionale sulla prima parte della Carta, cioè sui principi che ispirano il nostro patto costituzionale.
Ebbene, noi crediamo che sia gravissimo questo programma di sottoporre a voto parlamentare e poi a referendum i principi che ci legano al patto costituzionale. Crediamo che il Capo dello Stato non firmerebbe quella legge e che la Corte la boccerebbe. Per modificare i principi ci vuole un’Assemblea costituente e troviamo molto strano che finora nessuno abbia sollevato questa questione.
Torniamo alla crescita. Con riforme senza spese non si fa niente. Va bene liberalizzare e certo sarebbe un bel giorno quello in cui la burocrazia decidesse in pochi giorni su un’autorizzazione o una licenza e che non ci volessero trenta passaggi e un anno e mezzo per ottenere un permesso.
In tutta franchezza noi credevamo che questo problema fosse stato risolto da un pezzo perché tutti i governi degli ultimi vent’anni ci hanno detto d’avere semplificato e ridotto all’osso il numero delle leggi e delle inutili complicazioni. Ricordo che Calderoli - ministro della Semplificazione - fece un pubblico falò con tanto di fotografi e televisioni e bruciò non so quante centinaia di leggi da lui abolite. Caro Calderoli, ma quali leggi ha bruciato se sono tutte ancora lì e se è vero che bisogna semplificare la burocrazia per costruire un edificio qualsiasi e per ottenere un qualsiasi permesso? Dunque non era vero quello che lei ci ha fatto intendere. Dunque avete gabbato anche questa volta i cittadini. Dunque siete un governo di imbroglioni. Dunque stiamo ancora discutendo sulla Salerno-Reggio Calabria. Non è una vergogna?
 
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È chiaro che le riforme senza spese non hanno nulla a che vedere con la crescita specie se la crescita bisognerebbe avviarla presto, anzi prestissimo. Nessuno vuole la patrimoniale, salvo l’imposta sulle case prevista dal decreto sul federalismo municipale. Ma per avviare la crescita, incrementare imprese e salari, rilanciare i consumi che scendono, contenere l’inflazione (che è una tassa, non è vero ministro Tremonti? Una tassa per di più regressiva?) i soldi ci vogliono.
Lei, nonostante i tagli, ha fatto correre le spese correnti (riducendo al minimo quelle per investimenti) del 2 per cento l’anno. Ha fatto aumentare il debito fino al 118 per cento. Ha azzerato l’avanzo delle partite correnti. Ha fatto aumentare la pressione fiscale.
I soldi per la crescita da dove li prenderà? Lo vedremo dai concreti provvedimenti che riuscirà a portare in Parlamento sempre che riesca a farsi luce tra il federalismo secessionista che piace tanto anche a lei e le leggi che servono al premier per bloccare i processi che lo riguardano.
 
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Dovrei parlare ora dell’altra partita, quella appunto sullo scontro giudiziario. Ma su quella non dico nulla, parlano e parleranno le carte. Una parola sulla foto “osé” della quale si parla con crescente insistenza. Se la foto c’è, qualcuno l’ha scattata. Quindi il premier fa entrare nelle sue case gente che è in grado di ricattarlo. Chiedo a Gianni Letta: perché lei ha escluso la ricattabilità del premier deponendo di fronte al Copasir? Se la foto ci fosse lei sarebbe smentito dai fatti. Ha considerato questa ipotesi? Le guardie non dovrebbero perquisire gli invitati del premier quando si tratta di “ragazze di vita”? E se quelle foto se le vendessero e se in contropartita del silenzio chiedessero soldi posti seggi nel Parlamento e nelle Regioni? Siamo ridotti in queste condizioni ed è questo l’uomo che rappresenta il governo e lo Stato?

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Pantaleo Gianfreda
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