Mediterraneo in armi.

26 Febbraio 2011 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Il nostro piccolo mare che non vuole morire torna a risucchiare un mondo che sempre vorrebbe ignorarlo e sempre è costretto a guardarlo. Nella Casa Bianca che tentava di volgersi verso il Pacifico e l’Asia, nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nelle cancellerie delle potenze europee di prima grandezza, governanti, diplomatici e generali devono ruotare di nuovo il mappamondo e puntare il dito su quella che sembra una pozzanghera e ridiventa un calderone che ribolle di ipotesi di interventi militari diretti o indiretti.

 
Oltre le cronache, le immagini raccapriccianti, le ipotesi, le domande che oggi si impongono sono: intervenire o no? Fare un’altra guerra, magari “umanitaria” o no? Morire per Tripoli?
Il mattatoio del “saggio” e “amico” Gheddafi che sta uccidendo una nazione per salvare se stesso è una guerra civile, per ora, ma le guerre civili in questo bacino di storia violenta hanno la brutta abitudine di trascinare con loro chi sembra estraneo, ma ha una mano, magari nascosta, nell’ingranaggio. Anche nella Jugoslavia disintegrata, che sul Mediterraneo orientale si stendeva, era una macelleria etnica interna: eppure l’America lontanissima, poi la Nato e l’Europa, ne furono risucchiati, generando quella dottrina dell'”intervento umanitario” che da allora significa nulla e dunque tutto.
Navi da guerra, battendo per ora bandiere appunto umanitarie, stanno facendo rotta verso le coste che furono regno fenicio, poi Mare Nostrum, poi Impero Ottomano, poi “Costa dei Barbari”, poi Tripolitania, oggi Libia. Si parla seriamente di no fly zone, di controllo armato dello spazio aereo libico, per impedire i mitragliamenti e i bombardamenti degli insorti, ma il blocco con la forza dei cieli di una nazione è un atto di guerra, che la si chiami umanitaria o no.
Si scuote dunque dal torpore mediterraneo anche quella Sesta Flotta americana che ormai aveva spostato le proprie navi verso l’Asia, dopo la fine della Guerra Fredda. Dal 2009, quando il tender per sottomarini nucleari “Emory Land” lasciò l’isola ormai denuclearizzata della Maddalena, la Sesta Flotta, che dal comando di Gaeta era arrivata a controllare sottomarini nucleari, portaerei, 40 unità di superficie, 200 aerei, oggi conta soltanto una nave di comando e controllo, veterana di 41 anni di servizio, la “Whitney”, varata nel 1969.
Ci sono troppi interessi, troppa umanità diversa, troppo sangue caldo, troppa storia compressi in troppo poco spazio, mezzo miliardo di individui affacciati su appena 2 milioni e mezzo di chilometri quadrati di mare dal Bosforo a Gibilterra contro i 180 milioni di kmq del Pacifico, i 106 dell’Atlantico, perché periodicamente l’acqua del “mare amaro”, come lo definì lo storico inglese Simon Ball, non torni al punto di ebollizione.
Le ragioni possono essere apparentemente le più varie, dal duello di potenze emergenti a Roma e Cartagine agli incubi inflazionati di “sultanati” ed “emirati” che inghiottano l’intera sponda africana del nord da Israele all’Atlantico, ma la causa profonda è sempre la stessa. L’instabilità di quel mare interno che non divide, ma collega nella sua piccolezza due continenti, risucchia nel proprio gorgo anche il resto del mondo che cerca di guardare da un’altra parte.
Il portavoce della Casa Bianca, Carney, spiega che il presidente Obama “non esclude niente”, formula che si ferma appena un passo prima dell’espressione “ogni mezzo necessario” che arriverà, se il massacro tripolino ordinato da un Gheddafi che non può a questo punto fuggire senza essere inseguito – come Milosevic – dai tribunali internazionali, non si fermasse. Si attende il Consiglio di Sicurezza, non perché sia in grado di lanciare alcuna iniziativa concreta: solo ieri la Commissione per i Diritti umani ha finalmente deciso di escludere la Libia dalla Commissione per i Diritti Umani. Ma perché la Washington di Obama non è quella di Bush: nessun marine o jet americano si muoverebbe senza il viatico di una risoluzione e autorizzazione dell’Onu.
Il Mare Nostrum ridiventato “Mare Calidum” caldissimo si vendica sempre di chi credette di poterlo abbandonare e tradire con oceani più grandi e ricchi, come se i viaggi di Colombo o la parziale vittoria di Lepanto avessero segnato per esso “la fine della storia”. Invece fu proprio nelle stesse acque dove ora potrebbero lanciarsi migliaia o centinaia di migliaia di disperati nelle rotte contrarie a quelle delle unità militari inviate per fermare – senza osare dirlo – anche loro, che i neonati Stati Uniti dispiegarono per la prima volta nel 1801 la propria forza navale fuori dalle acque del Nuovo Mondo. Guidarono la spedizione a Tripoli contro i pirati “Barbari”, in realtà “Berberi”, controllati dai sultanati del Marocco e della Tripolitania.
Neppure lo scontro fra l’Est e l’Ovest, dopo la fine della guerra aperta fra l’Asse e gli Alleati, raffreddò le acque bollenti del Mediterraneo, tra l’Algeria ribelle, i bombardamenti anglo-francesi sull’Egitto di Nasser mentre l’esercito israeliano avanzava nel Sinai, i pattugliamenti reciproci fra sottomarini nucleari russi e americani. Ora è bastato che si riaprisse il transito a Suez perché si ripresentassero immediatamente anche gli iraniani, con due navi da guerra, per esserci anche loro e mostrare la bandiera degli ayatollah in quel mare attratti dall’odio per i “Sionisti” israeliani.
Ci possono essere periodi di lunga bonaccia, in queste acque che appaiono mitissime quando sono in buona e sanno diventare improvvisamente tremende se l’alta pressione esercitata da una potenza dominante, come fu l’America dopo Roma, Bisanzio, Spagna, Francia, Impero Turco, Gran Bretagna, tutte sicure di possederle per sempre, si allenta.
E’ storia vecchia, ed è storia di oggi. Questa pozzanghera di umanità ha già saputo cambiare il mondo, senza aspettare il ricatto del petrolio o gli spettri della violenza. A volte, è bastato soltanto un libro.

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Pantaleo Gianfreda
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