“Radici o strade? Voci e percorsi dei giovani di Collepasso”

28 Dicembre 2011 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Radici o strade? Voci e percorsi dei giovani di Collepasso” è un video-documentario etnografico realizzato da Federica Caponnetto per la tesi di laurea magistrale in studi geografici e antropologici e presentato in un interessante incontro tenuto a Collepasso martedì 27 dicembre. Un incontro che mi auguro possa avere un seguito e segnare un reale confronto tra i giovani collepassesi. La tesi dal titolo “L’ identità fra tradizione e mutamento: giovani di Collepasso, Salento” è basata sulle video-interviste fatte ad alcuni ragazzi di un paese del Salento e affronta la tematica dell’identità culturale legata al luogo in cui ciascuno di noi nasce e cresce. Nel video sono raccolti i momenti più salienti delle interviste. Di seguito si riporta la parte conclusiva del lavoro di Federica. Vedi il video


Nell’arco di tempo in cui ci siamo dedicati alla stesura di questo elaborato, non poteva sfuggirci come la parola identità, a partire dagli ultimi mesi del 2010 e per buona parte del 2011, sia stata una delle più gettonate nelle orecchie e nelle bocche degli italiani.
Sembra, infatti, che le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità di Italia, tutto d’un tratto, abbiano risvegliato e rinvigorito nei suoi cittadini quel sentimento di appartenenza identitaria a quell’ampia comunità che costituisce una nazione. Bandiere e coccarde tricolori ovunque: per le strade della capitale, ma anche sui balconi e finestre del più piccolo paese; sulle giacche dei conduttori televisivi, così come sugli indumenti della gente comune; sulla schermata della pagina web di Google Italia e nelle icone dei profili personali dei social network. Italiani che si riscoprono italiani, grazie anche all’aiuto dei media, in particolare della televisione, nel rispolverare gli scaffali di una memoria storica collettiva, per lungo tempo confinata nei manuali scolastici che molti di noi hanno da tempo chiuso e riposto in chissà quale angolo della cantina. Italiani che riscoprono la bellezza di emozionarsi nel cantare e ascoltare l’inno di Mameli, non più solamente in occasione di particolari “momenti storici sportivi”, come la vittoria nella nazionale azzurra ai mondiali di calcio, per esempio. Italiani così uniti nel celebrare la propria patria, eppure tanto diversi nei modi di parlare, di cucinare, di atteggiarsi, di essere.
Una nazione può mettere a disposizione tutti gli strumenti simbolici necessari a infondere nei suoi abitanti il desiderio di immaginarsi parte di una comunità composta da individui fisicamente lontani che non potranno mai conoscersi reciprocamente, ma non potrà mai annullare le diversità antropologicamente costituite in ogni angolo del territorio che i suoi confini delineano.
Le persone nascono, crescono e si spostano in precisi luoghi, assorbendone i tratti culturali specifici che derivano dall’interazione tra l’uomo e il suo ambiente.
Nei fatti, l’identità personale di cui ciascuno è portatore non è che la sommatoria delle esperienze delle diverse realtà sociali acquisite nel corso della propria vita. Dunque, non si tratta di un entità monolitica, che ci è data sin dalla nascita ma consiste in una costruzione in costante evoluzione.
A seconda delle strade che percorriamo, delle persone con cui socializziamo e degli spazi fisici e sociali che il nostro corpo esperisce, ciascuno sarà portato a identificarsi in una pluralità di comunità che si sovrappongono, più o meno coerentemente.
Ci si può identificare in una nazione, così come ad una comunità religiosa, politica, sportiva; nello stesso tempo, i luoghi di cui abbiamo fatto esperienza, come ad esempio quello in cui siamo nati e cresciuti, quello in cui viviamo, quello in cui abbiamo trascorso una parte della nostra esistenza incidono, anche se in misura relativamente diversa, sul modo di percepire la nostra identità, in quanto insieme composito di più elementi che ci distinguono da taluni e ci accomunano ad altri.
D’altro canto, è attraverso la socializzazione, il contatto con l’altro, che sin dall’infanzia prende forma il nostro particolare habitus: stile di vita, gusti estetici e alimentari non sono che la manifestazione di quell’insieme di atteggiamenti, attitudini che incorporiamo nella conoscenza dei modelli di realtà che il nostro habitat sociale e culturale ci propone costantemente.
Quindi, quanto più ci apriamo al mondo, tanto maggiore sarà la nostra capacità di immaginare la nostra identità come qualcosa in continuo cambiamento.
Benché, il posto in cui si nasce e ci si trascorre i primi anni di vita possa costituire ancora per molti il luogo a cui ci si sente di appartenere e nel quale si ritiene che affondino le proprie radici, il nostro essere contemporanei in un’epoca caratterizzata da un frenetico e inarrestabile movimento di capitali, merci, culture, persone e informazioni, principalmente prodotto dell’avanzamento tecnologico nei sistemi di comunicazione globali, dona maggiore complessità alla questione identitaria.
Nel surmoderno mondo inquieto ed “eccessivo” in cui ci troviamo a vivere oggi, guidiamo auto tedesche, indossiamo vestiti spagnoli, usiamo cellulari svedesi e giochiamo a videogiochi giapponesi su computer americani. Eppure, pare che sia proprio il consumo di merci, di cui ignoriamo la provenienza, il principale mezzo che oggi disponiamo per esprimere agli altri e a noi stessi la nostra identità. L’obbligo imperante a cui siamo di continuo sottoposti ci richiede di esibire, ogni qualvolta risulti necessario, una nostra precisissima identità, sia privata che pubblica, che non dipende più tanto da ciò che facciamo, dal nostro lavoro o dai nostri personali interessi, ma da come ci rappresentiamo di fronte agli altri.
Come suggerisce il messaggio veicolato dalla televisione, “Basta apparire”. Nondimeno, se si desidera stare “al passo coi tempi”, occorre anche avere “un profilo” e mostrarsi presenti nella rete sociale del mondo virtuale.
Ma in questo ossessivo tentativo di mettere in vetrina il nostro essere, ci siamo mai fermati a chiederci chi siamo veramente?
Il gruppo di giovani uomini e donne che abbiamo intervistato nel corso della nostra indagine etnografica “alla ricerca dell’identità” in un piccolo paese del Sud Italia, sembrino avere un’idea ben precisa riguardo alla questione appena esposta.
E’ nei loro stessi discorsi sul passato e sul presente del luogo in cui sono cresciuti che traspare la loro consapevolezza di essere quello che sono: la lingua che parlano i loro genitori e i loro amici, l’odore della terra dei campi coltivati e delle foglie di tabacco stese a seccare per le strade, il sapore del vino nuovo bevuto a San Martino e delle pittule mangiate il giorno dell’Immacolata. Sono il rumore del loro mare e il silenzio del loro paese nelle giornate d’inverno; la musica dei tamburelli e la musica che essi stessi creano. Sono l’incontrarsi al castello nelle sere d’estate e il connettersi alla rete per incontrare gli amici lontani su Facebook.
Sono giovani in cammino verso l’età adulta che costruiscono la loro identità con la voglia di percorrere nuove strade, ma con la certezza di non spezzare mai quel filo che li mantiene legati alla propria terra.

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Pantaleo Gianfreda
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