L’appello di Saviano: “Il diritto di sognare un’Italia pulita”
5 Febbraio 2011Spread the love
Oggi pomeriggio, al Palasharp di Milano, il raduno di Libertà e Giustizia: “Il premier vada via, l’Italia volti pagina”. Gli slogan della manifestazione: “Dimettiti. Per un’Italia libera e giusta”, “Un’altra storia italiana è possibile”. Accreditate molte tv straniere per quella che è stata definita all’estero come “la prima grande manifestazione degli intellettuali contro Berlusconi”. Nel nostro Paese, certo, si può dissentire. Ma a che prezzo? Al prezzo si essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango. Don Milani diceva: “A che cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?”
L’Italia oggi non è un paese libero. Sia chiaro: non sto dicendo che la situazione italiana sia in qualche mondo comparabile con i totalitarismi del passato. Niente a che vedere con fascismo o comunismo, è ovvio. Ma ciò non ci deve impedire di dire che oggi chiunque attacchi il governo sa che subirà un’intimidazione, una forma di ritorsione. Sa che potrebbe essere colpito, lui, o i suoi cari, da una qualche velina infamante che cercherà di sporcarlo davanti all’opinione pubblica.
La libertà non può esistere solo come costruzione astratta o peggio come principio.
“La libertà politica – scriveva Salvemini – è sostanzialmente il diritto del cittadino di dissentire dal partito al potere. Da questo diritto di opporsi al potere nascono tutti gli altri diritti”.
In Italia, certo, si può dissentire: ci mancherebbe altro. Ma a che prezzo? Al prezzo di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango. Lo abbiamo visto in passato con Boffo, con Fini, con il giudice Mesiano, ora con Ilda Boccassini. Lo vedremo ancora.
Parlo da trentenne. L’odio che senti vicino quando ti poni contro certi poteri mi ha stupito. Guicciardini aveva ragione quando definiva l’Italia un paese di contrade. Temo che se queste contrade non saranno dismesse non potremo andar lontano. Sembriamo condannati a dividerci su ogni cosa. Ci si può essere antipatici, ma in questo momento non c’è spazio per sottolineare le differenze, per misurare chi è più critico e chi è più puro, chi ha la corona del miglior antagonista o dell’Italia migliore. Questo è il momento non dico dell’unità, ma almeno delle affinità. La purezza non serve più. Ricordo quel che diceva Don Milani: “A cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?“. Sporcarsi le mani non ha nelle parole del parroco della scuola di Barbiana nessun significato di corruzione, è ovvio: vuol dire la necessità di fare, anche sbagliando, di realizzare cose che possano essere difficili, ma utili. Unirsi nelle diversità è cosa complicata ma ormai imperativa. Certi che da questa unità verrà del bene per tutti.
Monicelli poco prima di morire auspicava una rivoluzione. Oggi la parola rivoluzione in me non evoca banchetti di sangue né vendette, né palazzi d’inverno né Moncada. Ancor meno fucilazioni e “uomini nuovi”. E’ invece la parola che mi fa tornare alla mente la lezione di Piero Gobetti: oggi ho la sensazione che sia rivoluzionario non considerare gli elettori di un’area avversa come perduti. Che sia rivoluzionario sentirci tutti partecipi di uno stesso paese ed un unico destino. O si riparte da questo o non saprei proprio il motivo di impegnarci, intervenire, “sporcarsi le mani”.
Sento di poter scrivere queste parole proprio perché vengo da una terra dove la legalità significa vita e libertà in maniera forse più chiara che qui a Milano. E perché non appartengo alla generazione che ha creduto nel socialismo reale. Non ho amato i rivoluzionari tramutati in dittatori. Non ho creduto in sogni di società perfette divenuti inferni in terra. Appartengo alla generazione che ha visto i caduti della sua resistenza morire per costruire un paese dove le opportunità, il talento, il diritto, fossero cose reali. Gianni Falcone, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Carlo Alberto Dalla Chiesa. non muoiono mentre stanno portando avanti la loro professione di magistrati a difesa del diritto e perseguendo i reati. Almeno, non solo per questo. Fanno molto di più.
Così come Giancarlo Siani, Pippo Fava, De Mauro non muoiono perché inciampano in verità indicibili. Ma perché scrivendo rendono pubbliche le verità che conoscono: e molti uomini e donne che hanno verità possono trasformare lo stato di cose. Per questo vengono condannati a morte. Per la loro parola.
In questa battaglia la mia generazione è cresciuta. In un Paese dove lo Stato non era un monolite tutto corrotto o tutto rivolto al bene. Ma dove una parte di Stato corrotto era affrontato quotidianamente dall’altra parte dello Stato. Vivere costruendo le possibilità di essere felici è una necessità dell’uomo, l’unica alternativa ad una rassegnata, cupa disperazione: un sogno che non può non farti combattere con tutto te stesso contro l’impossibilità di far affermare il merito, l’impegno, il talento. L’ingiustizia è di questo mondo. Ma sono di questo mondo anche gli strumenti per affrontarla. In questa fase in Italia non sembra possibile. Il governo e l’area culturale che lo sostiene non si difende mai dalle accuse – così evidenti, così manifeste – dicendo: non si fanno certe cose. Ma sostenendo l’autoassolutoria tesi del “così fan tutti”. L’accusa maggiore a chi chiede un paese diverso è l’accusa di essere un ipocrita: “Berlusconi fa quel che tutti fanno o vorrebbero fare”. Non è vero, non è così, dobbiamo ribellarci al ritratto di un Paese piegato e corrotto, accomunato in una specie di complicità collettiva. C’è un’Italia che ha il diritto e il dovere di venire alla luce e di prendere voce: un’Italia che crede nelle regole, nella legalità, che crede che non sia normale avere un premier che, preda di una senile ossessione sessuale, paga le minorenni, mente allo Stato per proteggerle e sfugge ai magistrati.
Albert Camus diceva che la sofferenza, come la morte, non si può sconfiggere: ma che il nostro dovere è di riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Io in questo credo: nella possibilità di ridurre aritmeticamente il dolore. Forse un mondo migliore non esiste, ma credo nella possibilità di migliorare il mondo. Per questo sento che è il tempo per tornare a sognare. Non sembri scontato e retorico e anche se lo fosse ben venga. Ma sognare un paese diverso non può che essere il carburante vivo e persino divertente del tentativo di cambiare le cose. Di cercare una felicità possibile. Una felicità semplice, fatta di un lavoro dignitoso, della possibilità dell’individuo di provare quanto vale. Di ricevere quanto merita. Non è il sogno di un paradiso inesistente ma di un luogo un po’ diverso, dove l’ingiustizia, il favore, la raccomandazione del potente di turno per ottenere un lavoro o addirittura un posto in consiglio regionale o in parlamento, non esistano più. I valori che ci fanno in questo momento stare insieme sono sepolti con l’urgenza di identificare ciò che non siamo ciò che non vogliamo. Ora è il tempo di dire anche ciò che siamo e ciò che vogliamo.
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