Cenni di storia locale: la Masseria Grande sede della Guardia Nazionale per combattere il brigantaggio nel periodo postunitario

12 Novembre 2013 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Masseria grandeLa Masseria Grande, in agro di Collepasso, al confine con Supersano, è parte sostanziale e integrante della “vallata delle masserie” di Supersano, di cui è monumentale caposaldo per chi, provenendo da Collepasso o Maglie, attraversa l’importante asse viario Gallipoli-Otranto (la cui realizzazione è relativamente recente, essendo iniziata nel corso degli anni ’60 dell’Ottocento).

La masseria era punto strategico dell’antica “strada principale” dell’epoca preunitaria, la vecchia Gallipoli-Supersano, che attraversava longitudinalmente tutto il pendio della Serra, conosciuta nei secoli passati come la “via dell’olio” Otranto-Gallipoli, che costeggiava (e costeggia) la Masseria Grande e si inoltrava verso le altre masserie (Palazze, Mendole, Chiesa, Stanzìe, ecc.) sino a Supersano, Nociglia, Scorrano, ecc.

L'ingresso della Cappella di San Quintino nella masseria

L’ingresso della Cappella di San Quintino nella masseria

La costruzione della masseria risale a fine ‘600-inizio ‘700. Come riportano i due storici collepassesi Salvatore Marra e Orazio Antonaci, la sua presenza è attestata sin dal 1752 nel Catasto onciario di Maglie come proprietà di Teresa Giannotta, vedova di Antonio Drosi, e registrata con l’originario nome “San Quintino”, per la presenza di una cappella dedicata a questo santo. E’ descritta come un consistente complesso rurale costituito da “un comprensorio di curti… con case, capanne, chiesa sotto il titolo di San Quintino… con casino congiunto, con giardinello attaccato allo stesso casino da levante e con abitazioni inferiori e superiori”. La chiesetta di San Quintino era utilizzata per la celebrazione della Messa nei giorni festivi, secondo quanto rilevato in un documento parrocchiale del 10 maggio 1874, in cui si riporta anche che all’epoca la proprietà era già di Raffaele De Marco di Maglie, i cui eredi continuano tuttora a detenerne il possesso.

Poca conosciuta, però, è la circostanza che la masseria, nell’immediato periodo postunitario, sia stata sede di un comando della Guardia Nazionale.

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La masseria, situata in un importante punto strategico della vecchia strada principale Gallipoli-Supersano, da cui si dominava tutta l’area circostante, era sede della Guardia Nazionale, delegata a combattere il fenomeno del brigantaggio diffusosi anche in questa parte del Salento.

E’ quanto emerge dalla descrizione dell’uccisione del brigante Quintino Venneri, avvenuta il 23 marzo 1863 nella Chiesa della Madonna di Coelimanna, posta quasi all’ingresso di Supersano provenendo da Casarano.

Siamo in un periodo in cui l’antico Bosco Belvedere (o dei Paduli), che per secoli e secoli ha coperto con le sue querce gran parte di quest’area centro-meridionale del Salento (ben 15 i Comuni interessati), era ormai in fase avanzata di distruzione per far posto ai più redditizi oliveti, che oggi coprono quasi tutta l’area dell’attuale “foresta degli ulivi”. All’epoca, permanevano, però, ancora vaste aree boschive e paludose (per tutte, l’antico Lago Sombrino, di cui parleremo in altra circostanza).

I grandi boschi richiamano sempre storie e leggende di brigantaggio. In tutto il Mezzogiorno, e anche nel Salento, queste storie (e leggende) sono legate soprattutto alle vicende relative all’immediato periodo postunitario del nuovo Stato italiano.

Scriveva Salvatore Panareo in “Reazione e brigantaggio nel Salento dopo il 1860”, uno scritto pubblicato nel 1943 su “Rinascenza salentina”: “Ancora più giù, verso il Capo di Leuca, non mancarono bande di malviventi la cui fama è legata ai capi Ippazio Gianfreda, detto Pecoraro, Rosario Parata e Quintino Venneri. Le loro gesta, non dissimili da quelle dei compagni del Tarantino, furono favorite dai vicini boschi, come quello di Belvedere, nei quali questi briganti trovavano facile rifugio. Fidando nell’appoggio di manutengoli e nella paura delle popolazioni, essi resistono per qualche tempo alla caccia della forza. Anche costoro, in qualche impresa, figurano alleati. Gli scopi son sempre quelli: grassazioni, rapine, estorsioni e talvolta la vendetta personale. Come nel Tarantino l’anno più intenso dell’attività brigantesca è il 1862, così nel basso Salento è l’anno successivo”.

Il brigante Quintino Venneri, detto "Macchiorru"

Il brigante Quintino Venneri, detto “Macchiorru”

Proprio la cattura di Quintino Ippazio Venneri, denominato “Macchiorru”, originario di Alliste, avvenne nel 1863 a Supersano, nella Chiesa della Madonna di Coelimanna. Venneri era uno dei più noti briganti dell’epoca e a lui sono stati addebitati numerosi fatti e azioni feroci, come l’uccisione di un prete di Melissano, don Marino Manco, ritenuto filo-sabaudo.

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La cattura di Quintino Venneri venne descritta nel 1912 da Ruggero Rizzelli su “Pagine di Storia Galatinese”.

Proprio da questo scritto si evince che in quell’epoca “il comandante della Guardia Nazionale…” era “di stanza alla masseria Grande dei signori De Marco di Maglie”. Si trattava del maggiore Angelantonio Paladini, “comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni”.

Riporto integralmente quanto scriveva Rizzelli sulla cattura del brigante Venneri:

La cattura, anzi, l’uccisione di Quintino Venneri, avvenne in modo tragico ed emozionante. La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel colmo della notte del 23 marzo 1863, fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, un chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. L’ora tarda non permise ai militi della benemerita arma di avvisare il comandante della Guardia Nazionale di stanza alla masseria Grande dei signori De Marco di Maglie, e postasi in armi in soli otto carabinieri, al comando di un brigadiere, corse a Cirimanna. Il drappello dei valorosi giunse sul posto in sul far del giorno e nell’accerchiare la chiesetta non potette fare a meno di non prevenire il capo banda Venneri il quale, non potendo evadere, si pose in sugli attenti per difendersi. La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito: l’Arma benemerita aveva liberato la contrada del capo banda ma aveva rimesso la pelle di un suo valoroso soldato.

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La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie – la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio”.


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