La “Grande Guerra”. Così a Collepasso si festeggiò l’armistizio del “III Novembre”

10 Luglio 2015 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Un’immagine di Fabrizio De Andrè e la lapide della strada a lui intestata (ex via III novembre), nella composizione di Milena Baglivo (Foto Brigante)

Un’immagine di Fabrizio De Andrè e la lapide della strada a lui intestata (ex via III novembre), nella composizione di Milena Baglivo (Foto Brigante)

C’era a Collepasso una strana “via III novembre” (scritta proprio così, con numeri romani o ordinali), strana poiché se ne vedono in giro per lo Stivale a migliaia di vie “Quattro novembre”, ma rarissime con l’indicazione del “tre”.
Per giunta, l’altra singolarità era che la più nota e diffusa “via Quattro novembre” è posta in una zona del paese piuttosto periferica; al contrario, l’altra si trovava al centro, anzi proprio sotto l’orologio della piazza, che batte “la sua ora”.(1)
Dunque, cerchiamo di capire bene la questione, mettendo un po’ d’ordine ai ricordi scolastici di tutti.
L’armistizio venne firmato nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino, senatore del Regno d’Italia, alle ore 15.20 del 3 novembre 1918, mentre il “cessate il fuoco” sarebbe entrato in vigore alle 15.00 del 4 novembre; inoltre, l’arcinoto “Bollettino della Vittoria” fu emesso dal Comando Supremo alle ore 12.00 del 4 novembre, chiuso dal celebre “Firmato Diaz”, che tanti nati dall’equivocato nome “Firmato” ebbe a causare di lì a poco.
Logico che la data più famosa, indimenticabile e indimenticata per tutti gli Italiani divenne proprio questa; e festa nazionale.
Ma nel nostro paese accadde qualcosa di insolito. Sembra che, attraverso qualche vicina stazione telegrafica, la notizia dell’armistizio di Villa Giusti delle 15.20 non tardò molto a giungere a qualche concittadino più addentro alle segrete stanze dei bottoni e immediatamente diffusa fra le plebi, consunte da più di tre anni di guerra e ormai senza più un giovane in giro o quasi, solo anziani, donne, bambini; uno stillicidio di tristi telegrammi “e la firma era d’oro, era firma di re”(2), figli volati in pezzi con “il lampo in un orecchio, nell’altro il paradiso”.(3)
In maniera del tutto spontanea, allora, decine di uomini accorsero a radunarsi sotto la Torretta dell’Orologio, inaugurata appena quattro anni prima, che all’epoca fungeva da specie di porta al piccolo abitato, e, complice una fisarmonica, si diedero a balli popolari e ad offrire “la faccia al vento, la gola al vino”. (4)
Non mancò certamente anche qualche rara donna, che “aspettava il ritorno d’un soldato vivo, (d’un eroe morto che ne farà, se accanto nel letto le è rimasta la gloria d’una medaglia alla memoria)”. (5)
Se non fosse per l’assurdità e la tirannia del tempo, qualcuno più poeta e più intonato, chissà, avrebbe potuto già allora cantare “lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati, non più i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente”. (6)
E un altro, magari più arrabbiato e acculturato, gridare a squarciagola “dove sono i generali che si fregiarono nelle battaglie con cimiteri di croci sul petto, dove i figli della guerra partiti per un ideale, per una truffa, per un amore finito male; hanno riportato a casa le loro spoglie nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere”. (4)
Non sappiamo quanto durò il flash mob messo in opera dai nostri compaesani di cent’anni addietro; probabilmente defluirono alla spicciolata, così come si erano incontrati, e ciascuno di essi lasciò per gli anni a venire il nome del proprio parente, che sognava “solo una casa, una donna, un lavoro” (7), inciso sulla lapide a fianco della Torretta dell’Orologio, là dove sta ancora.
Non c’è più, invece, sotto l’arco della torretta, la targa, quella per tanto tempo sembrata ai più strana per via della scritta “III novembre”, e qualcuno non ha gradito la sua sostituzione con “via Fabrizio De Andrè”.
Il sottoscritto, dal canto suo, mettendoci logicamente del proprio nel reinterpretare la vicenda a tutt’oggi sconosciuta, ritiene, “in direzione ostinata e contraria” (8), che nessun’altro meglio del grande Faber possa essere degno di apparire su una bella lapide bianca, proprio sul posto, dove una pur piccola parte di popolo, oppresso e frodato, accolse con gioia la fine dell’“orrenda carneficina” e “inutile strage”. (9)

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Giuseppe Lagna

Note
(1) da “L’ora dell’amore” de I CAMALEONTI, 1967 (“Homburg” dei PROCOL HARUM, 1967)
(2) da “Andrea” in “Rimini” di Fabrizio De ANDRE’, 1978
(3) da “Fiume Sand Creek” in “L’indiano” di Fabrizio DE ANDRE’, 1981
(4) da “La collina” in “Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio DE ANDRE’, 1971
(5) da “La ballata dell’eroe” in “Volume III” di Fabrizio DE ANDRE’, 1968
(6) da “La guerra di Piero” in “Volume III” di Fabrizio DE ANDRE’, 1968
(7) da “Uno come noi” in “Gente come noi” de I NOMADI, 1991
(8) da “Smisurata preghiera” in “In direzione ostinata e contraria” di Fabrizio DE ANDRE’, postumo, 2005
(9) da “Lettera di Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti”, 1 agosto 1917


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Pantaleo Gianfreda