27 gennaio, Giorno della Memoria: “Ricordare è un dovere per evitare che la storia si ripeta”. Il dramma dei sinti
27 Gennaio 2022
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria: si celebra ogni anno in questa data, su decisione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005, perché il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il famigerato campo di concentramento di Auschwitz, che aveva visto, insieme ad altri campi di sterminio, ebrei, disabili, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, soldati e tanti oppositori tragiche vittime della barbarie nazista.
Ricordare è un dovere per evitare che la storia si ripeta.
Tra i milioni e milioni di vittime del nazifascismo ci fu anche lo sterminio degli zingari, anche essi vittime innocenti della ferocia nazista insieme ad altri milioni di esseri umani.
Sul tema sono stati pubblicati alcuni libri (Luca Bravi e Matteo Bassoli, “Il Porrajmos in Italia. La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo”, Bologna 2013; Eva Rizzin, “Attraversare Auschwitz, storie di rom e sinti: identità, memorie, antiziganismo”, Roma, 2020).
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”: era, in principio, l’inizio di un sermone del pastore Martin Niemöller per rilevare l’apatia degli intellettuali e dei cittadini tedeschi sull’ascesa al potere dei nazisti e sulle loro purghe… poi divenne un’amara poesia!
Riprendo e riporto di seguito un interessante post pubblicato sulla bella pagina facebook “La farfalla della gentilezza”, che ricorda alcune circostanze poco conosciute o “rimosse” dalla memoria collettiva: la persecuzione subita dai sinti e le gravi responsabilità del fascismo italiano.
“Il padre di mio nonno materno, Giovanni Haldaras, è sopravvissuto, ma ha sempre ricordato la grande fame che dovette sopportare nel campo. Da quel giorno ha sempre vissuto con un pezzo di pane in tasca ed anche quando ci ha lasciati, lo abbiamo sepolto lasciando il suo pezzo di pane in tasca”.
Così il nipote, Emanuele Piave, racconta del suo bisnonno che, come tanti altri in quel periodo, fu internato nel campo di concentramento di Agnone, vicino Isernia.
Sì, anche da noi c’erano i campi di concentramento, e quelli di Agnone, Boiano e Tossiccia (vicino Teramo), erano riservati ai sinti e ai rom, sprezzantemente chiamati ancora oggi zingari.
Giovanni Haldaras era uno di loro, abitava a Prato, per vivere puliva le caldaie e aggiustava pentole di rame. Nel 1938 furono approvate le leggi razziali che colpirono anche le comunità sinti e rom.
Nel 1940 ci furono i primi rastrellamenti: il campo di Prato dove Giovanni viveva con la sua famiglia fu distrutto e tutti gli abitanti finirono ad Agnone, trascinati in catene nell’ex convento di S. Bernardino da Siena, che nel 1940 era stato riconvertito in luogo di reclusione e sofferenza. Lì si pativa la fame e la violenza dei sorveglianti, si lavorava duramente, molti morivano per la fatica e gli stenti, per il freddo e le malattie.
Dopo l’8 settembre 1943 iniziarono le deportazioni nei lager nazisti, in particolare ad Auschwitz-Birkenau, dove era stato creato un apposito settore, lo Zigeunerlager, pieno di donne e bambini. E lì, nella notte del 2 agosto 1944, la follia nazista mise in pratica la famigerata soluzione finale: tutti i sinti e i rom furono sterminati.
Giovanni e la sua famiglia riuscirono a scappare alla deportazione, ma furono costretti a nascondersi nelle grotte sulle montagne della Maiella per mesi, soffrendo la fame, una fame che Giovanni ricorderà per tutta la vita.
Ma furono molto fortunati, perché riuscirono a sopravvivere.
A differenza del mezzo milione (ma forse i numeri sono ancora più grandi) di sinti e rom che furono vittime del genocidio, che in lingua romanas viene chiamato “Porrajmos”, il grande divoramento.
Un progetto razzista e persecutorio in cui anche l’Italia prese parte, prima con i respingimenti e l’allontanamento dal territorio nazionale, poi con una vera e propria pulizia etnica effettuata con rastrellamenti, confino, arresto, reclusione nei campi di concentramento italiani, e culminata infine con la deportazione nei campi di sterminio nazisti.
Una storia di cui si parla ancora troppo poco.
Del campo di Agnone, ad esempio, non si sapeva quasi nulla. Dobbiamo ringraziare Milka Goman, che fu internata lì quando aveva 18 anni e che a distanza di oltre 60 anni, nel 2005, è tornata ad Agnone per rivedere i luoghi della sofferenza, ma soprattutto per sottrarre all’oblio una pagina della nostra storia che non possiamo tacere. Ma dobbiamo ringraziare anche lo scrittore e professore Francesco Paolo Tanzj, che nel 2001 con i suoi studenti dell’ultimo anno di liceo ha intervistato gli anziani del paese per trovare testimonianze e documenti di quel periodo passato sotto silenzio per troppo tempo.
La bella notizia è che nel 2005 l’allora sindaco di Agnone chiese scusa a Milka Goman e a tutta la comunità rom e sinti per le sofferenze subite e per quei pesanti silenzi durati troppo a lungo.
La brutta notizia è che nei confronti di rom e sinti prevale, purtroppo ancora oggi, il pregiudizio e l’intolleranza, dovuti in gran parte alla mancanza di conoscenza.
Ma come diceva Gandhi: “Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta deve essere la tolleranza reciproca”.