Duemila “in marcia” a Casarano contro mafie e criminalità. Don Coluccia: “Dobbiamo ribellarci in nome del Vangelo e della Costituzione”

Duemila “in marcia” a Casarano contro mafie e criminalità. Don Coluccia: “Dobbiamo ribellarci in nome del Vangelo e della Costituzione”

10 Marzo 2024 Off Di Pantaleo Gianfreda
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È stata una “lunga marcia” quella di sabato 9 marzo a Casarano, che, partita dai “Giardini William Ingrosso”, ha “conquistato” pacificamente piazza Petracca, lo stesso luogo dove, esattamente una settimana prima, era stato ucciso in pieno giorno il 33enne pregiudicato Antonio Afendi.

Una piazza, ieri macchiata di sangue e contaminata da “peccati criminali”, oggi “riconquistata” e “riscattata” con il “lavacro” della pacifica volontà popolare, che ha rivendicato per sé l’uso e il diritto di quei luoghi.

Emblematiche – e non poteva essere diversamente – la partecipazione alla marcia e le conclusioni, dopo l’intervento del sindaco di Casarano, di Don Antonio Coluccia, il “prete coraggio” salentino, l’ex operaio calzaturiero di Specchia che oggi testimonia con la sua vita e le sue opere la ferma e coraggiosa battaglia contro la criminalità e contro tutte le droghe in una borgata romana.

Don Antonio Coluccia nel suo intervento conclusivo

L’omertà è un tumore sociale… Dobbiamo ribellarci in nome del Vangelo e della Costituzione”, ha gridato dal palco Don Antonio.

Una “lunga marcia” quella di sabato 9 marzo a Casarano… reale e storica.

Duemila persone, secondo la Questura, hanno partecipato alla “marcia per la Legalità, contro la criminalità, contro tutte le mafie” organizzata dal Comune di Casarano, che ha visto finalmente “el pueblo unido” senza preclusioni di sorta. Una partecipazione corale, decisa e pacifica di un “popolo unito” contro mafie e criminalità con decine e decine di sindaci, rappresentanti di ogni colore delle Istituzioni, vecchie e nuove associazioni, parrocchie, scuole, partiti di destra e di sinistra, con tantissimi cittadini e giovani marciare con i colori più vari per “gridare un NO” fermo, cosciente, pacifico ma deciso a ogni criminalità e a tutte le mafie.

Una data storica, una “lunga marcia” dopo decenni di silenzi, sottovalutazioni, omertà e persino complicità. Il coraggio che ieri era di pochi – di qualche sparuta associazione, pochi valorosi cittadini, qualche audace giornalista, spesso emarginati, silenziati e persino perseguiti – oggi diventa finalmente coraggio collettivo, volontà popolare, che afferma, come è stato detto dal palco, “l’importanza dei valori della vita e della pace sociale e dello stare insieme per costruire un futuro migliore“.

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Per chi ha memoria dei tristi anni ’80-’90 e degli eventi criminali degli ultimi venti anni, è la prima volta di una “presa di coscienza collettiva” nel nostro territorio. La “prima volta” di un popolo che si ribella unito alla violenza, alle mafie, al malaffare e chiede di vivere in pace e guardare con serenità al futuro e allo sviluppo di un’area, come quella di Casarano e del Basso Salento, che, dopo gli anni della crisi economica che ha colpito in particolare il manifatturiero, sembra oggi riprendersi.

Due “simboli” storici della lotta alla criminalità organizzata, presenti alla manifestazione: Maria Filograna, la “donna coraggio” degli anni ’80-90, e il giudice Francesco Mandoi, ex Procuratore Aggiunto della Direzione Nazionale Antimafia

Certo, niente deve essere dato per acquisito e la “lunga marcia” non può che continuare e attraversare ogni comunità, ogni famiglia, ogni cittadino/a, ogni giovane, la scuola in particolare, che nella manifestazione del 9 marzo ha dato prova di grande maturità e partecipazione, ma anche Amministrazioni comunali e sindaci, che, presenti in massa alla manifestazione, devono essere sempre in prima fila nella battaglia contro ogni fenomeno criminale e trasformare i loro municipi in veri “presidi di legalità”.

Emblematico il commento alla manifestazione della giornalista d’inchiesta Marilù Mastrogiovanni, che da vent’anni si occupa di Sacra Corona Unita, costretta, dopo le sue ripetute denunce ed inchieste su “Il Tacco d’Italia”, ad abbandonare Casarano per motivi di sicurezza.

“La marcia – scrive Marilù Mastrogiovanni – è un segnale che lascia ben sperare: decine di sindaci del Salento hanno aderito alla manifestazione per la legalità. È importante infatti che le azioni degli amministratori locali siano indipendenti e mai piegate a logiche e pressioni mafiose. Così come indipendente e libera deve essere la stampa, per formare un’opinione pubblica consapevole anche del pericolo che tutta la comunità corre, se si abbassa la guardia. Tuttavia, lo dicono le statistiche, le querele temerarie arrivano ai giornalisti soprattutto dagli amministratori locali, che mal tollerano chi nell’interesse pubblico dà notizie scomode, pagando altissimi costi personali. Il sequestro del mio giornale, i manifesti contro di me, le decine di querele, archiviate o concluse con una sentenza di assoluzione, le misure di protezione, il trasferimento ad altra città, sono il prezzo che personalmente ho dovuto pagare. Nei processi ancora in corso mi si contesta di aver scritto che a Casarano c’è la mafia. Oggi, dopo 12 anni e diversi omicidi, tentati omicidi, arresti e retate, incendi, minacce, pressioni, se ne sono accorti tutti”.

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Accanto alle dichiarazioni della coraggiosa Marilù Mastrogiovanni, riporto integralmente quanto oggi ha scritto per “La Gazzetta del Mezzogiorno” un altro noto giornalista casaranese, Danilo Lupo, nell’articolo di fondo dal titolo “Casarano si ribella alla mafia”.

“Spiccano in testa – scrive Danilo – le fasce tricolore dei sindaci, accanto a quella celeste del presidente della Provincia di Lecce. Seguono le bandiere colorate di Libera. E poi striscioni, gonfaloni, i cartelli degli studenti, i gagliardetti delle associazioni. La piazza è stracolma, è oltre le aspettative la risposta di Casarano all’omicidio che si è consumato appena sette giorni prima ma che è solo l’ultimo episodio di una guerra di mafia che dura da sette anni.

In questi sette anni, però, Casarano ne ha fatta di strada. E il corteo che si è snodato ieri per le vie del centro cittadino è uguale e contrario a quello che si snodò sette anni fa, quello per il funerale di Augustino Potenza. Era il 2016, un sabato pomeriggio di fine ottobre e la chiesa matrice, la più grande di Casarano, era piena come un uovo.

Nel silenzio altissimo, tra gli altari barocchi e sotto la grande tela settecentesca che raffigura l’episodio biblico della fornace ardente passò la bara dell'”italiano”, il boss ucciso tre giorni prima a colpi di mitragliatore AK47 nel parcheggio del centro commerciale della città. Le persone erano centinaia, forse un migliaio; non mancava qualche consigliere comunale.

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Non erano tutti mafiosi, ovvio: ma erano tutti lì per il carisma di Potenza: quel funerale fu la più potente manifestazione della personalità del boss uscito indenne dall’ergastolo, sempre pronto a dare una mano a chi si rivolgeva a lui, con una chiara visione economica di una Scu 2.0, attento più alle carte di credito che alla lupara bianca, capace di reinvestire il denaro dello spaccio nelle più tradizionali attività economiche del territorio, l’abbigliamento e il calzaturiero.

Da allora però Casarano ha fatto molta strada. Molto ha pesato il lavoro silenzioso di Libera, l’intuizione di strutturare un comitato intercomunale: come Casarano era diventata, con la diarchia Potenza-Montedoro, il punto di riferimento della mafia, così poteva diventare anche il punto di riferimento dell’antimafia sociale.

Casarano ha fatto molta strada anche nelle sue istituzioni: sette anni fa l’amministrazione comunale ebbe una reazione che è frequentissima nelle comunità in cui deflagrano fatti di mafia: si chiuse a riccio, negando che ci fosse una malattia e anzi attaccando chi ne pronunciava il nome a voce alta. E l’opinione pubblica seguì questa linea, forse sperando che l’omicidio del boss fosse un fatto isolato, senza conseguenze, da dimenticare in fretta.

Così non è stato: a quel primo omicidio sono seguiti due tentati omicidi, spari contro le case e le saracinesche, incendi di autovetture, fino all’assassinio di Antonio Afendi, avvenuto a colpi di pistola la mattina del 2 marzo in pieno centro. Ecco perché ieri sia l’amministrazione della città che l’opinione pubblica del basso Salento hanno fatto un passo avanti: si sono resi conto che la criminalità organizzata ha messo radici profonde nel territorio e hanno chiamato per nome la malattia.

Sembra poco; e invece è la premessa per ogni possibile guarigione”, conclude Danilo Lupo.

Pantaleo Gianfreda

 


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