Verso il 25 Aprile

24 Aprile 2012 Off Di Pantaleo Gianfreda
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Per il 67° Anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, rinverdiamo il ricordo del nostro concittadino Germano Ria, il partigiano “Gennaro”, al quale l’anno scorso è stata intitolata una strada di Collepasso. Si propone, pertanto, il resoconto dell’ultimo incontro con la classe Quinta D, in occasione del 40° anniversario (25 aprile 1985), in visita presso la sua casa, essendo egli impossibilitato di raggiungere la scuola, come accaduto per molti anni.
Germano Ria morì poco tempo dopo, il 10 giugno: da pochi giorni il Comune di Collepasso era stato insignito del titolo di Socio Onorario dell’A.N.P.I., a firma del Presidente Nazionale Arrigo Boldrini, il leggendario “Comandante Bulow“. Lo storico diploma è oggi visibile nell’Ufficio del Sindaco. Di seguito, la lettera inviata da Germano Ria a L’Unità nel 1983, per il Concorso sull’8 Settembre 1943.

Resoconto della classe V D Scuola Elementare “Don Bosco Educatore”

“Quest’anno ricorre il 40^ anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo: il 25 aprile 1945 i partigiani liberarono la città di Milano dalle truppe tedesche di occupazione e dagli ultimi fascisti.
Tre giorni dopo il fondatore e capo del fascismo Benito Mussolini fu catturato, mentre fuggiva in Svizzera, con una valigia piena di oro e documenti, e fucilato.
Finiva così per la popolazione italiana un lungo periodo di lutti e di rovine.
Per circa vent’anni la maggior parte del popolo, tranne pochissimi oppositori, si era lasciata incantare dalle parole e dalle azioni dei fascisti guidati da Mussolini, che si faceva chiamare “duce”; prima di lui, secondo la propaganda che si faceva persino nelle scuole, c’erano solo il re e Dio.
Ma i risultati tragici di questa politica si notarono presto con l’entrata in guerra a fianco di Hitler, capo dei nazisti tedeschi; insieme promettevano di conquistare il mondo intero: non avevano, però, fatto i conti con la resistenza dei popoli oppressi.
I soldati italiani, mandati ad uccidere altri loro simili e a morire per una causa ingiusta, non tardarono a capire quale era il loro vero nemico; quelli che si erano salvati dalle nevi della Russia e dalle montagne della Grecia, della Jugoslavia e dell’Albania, trovarono l’Italia quasi interamente distrutta dai bombardamenti e in preda alla miseria e alla fame.
Decisero così di salire in montagna, si diedero un nome di battaglia, chi non aveva armi se le procurava assalendo i tedeschi: divennero partigiani della Resistenza.
In poco tempo diventarono sempre più numerosi, perché molti giovani, uomini e donne, andavano ad ingrossare le file partigiane, spinti dalle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti italiani. Anche se di idee politiche diverse, i partigiani avevano in comune la volontà di farla finita una volta per tutte con il regime fascista.
Il contributo dato da loro alla liberazione dell’Italia è di grandissima importanza storica.
Bisogna anche dire che moltissimi italiani combatterono da partigiani in altre regioni d’Europa, a fianco di popolazioni locali, come ad esempio in Albania, in Jugoslavia, in Grecia, in Unione Sovietica, ecc. Anche se i partigiani italiani furono aiutati dagli alleati inglesi e americani, essi furono capaci di liberare da soli quasi tutta l’Italia settentrionale; nelle grandi città di Firenze, Bologna, Genova, Torino, Milano, quando arrivarono gli angloamericani, trovarono i partigiani già organizzati in Comitati per far riprendere ai cittadini una vita normale.
Alcuni studiosi di storia hanno scritto che gli anni dal 1943 al 1945 sono stati i più gloriosi di tutta la storia del popolo italiano.
Dalle nostre parti la Resistenza non c’è stata; però, anche il nostro piccolo paese vanta tra i suoi cittadini alcuni partigiani, di cui tre ancora viventi: Mastria Antonio, Paglialonga Orlando (“Ritorno”), Ria Germano (“Gennaro”); un altro, Pellegrino Germano è deceduto.
Sono invece partigiani caduti in combattimento il caporal maggiore dei bersaglieri Renato Abbracciavento, morto a Chianocco (Piemonte) il 27 giugno 1944, e il carabiniere Giuseppe Paglialonga, caduto ad Hocevina in Montenegro (Jugoslavia) il 3 gennaio 1944, medaglia d’argento alla memoria.
A quest’ultimo l’Amministrazione Comunale di Collepasso ha intitolato una strada, mentre a tutti il 25 aprile 1983 ha assegnato una medaglia con la scritta “Il Comune di Collepasso con riconoscenza”.
Con il nostro maestro abbiamo pensato fare cosa gradita far visita al partigiano Germano Ria”Gennaro” nella sua abitazione.
Il vecchio partigiano, dal suo letto e tutti noi intorno, è stato molto prodigo di spiegazioni; per oltre un’ora ci ha parlato delle sue avventure, mentre la moglie Vittoria di tanto in tanto interveniva per mostrarci i suoi ricordi: il tesserino‐lasciapassare delle Brigate Garibaldi S.A.P. (Squadre di Azione Patriottica), una fascia tricolore da braccio, una foto dell’epoca, il fazzolettone rosso che portava al collo.
Sarebbe troppo lungo riportare per intero il suo racconto; ricordiamo l’episodio più importante.
Il partigiano Gennaro con un suo compagno il 23 aprile 1945 fu capace di liberare la caserma fascista di Villa d’Ossola, dopo aver incoraggiato circa duecento abitanti del luogo a seguirli nell’azione.
I fascisti, correndo via, abbandonarono nelle mani della popolazione affamata molti quintali di farina e di granturco e numerosi maiali.
I due partigiani organizzarono la distribuzione al popolo, anche perché era roba tolta loro con la forza dai fascisti.
Abbiamo anche avuto un momento di emozione, quando il vecchio partigiano ci ha raccomandato di continuare la loro opera, studiando e lavorando per difendere la libertà da loro conquistata.
Abbiamo salutato, mentre una grossa lacrima rigava il volto di questo coraggioso cittadino collepassese.”

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Alla Redazione de L’UNITA’ ‐ Concorso OTTO SETTEMBRE ‐ Via dei Taurini, 19 ROMA

Il sottoscritto RIA Germano, classe 1908, fui richiamato alle armi il 4‐12‐1942 e destinato al Secondo contraerei a Napoli. In seguito fui trasferito a Vado Ligure prov. Savona. Facevo il portaordini al Comando. Si viveva male, affamati e controllati dalle vicine truppe tedesche che si definivano i nostri maestri. Quella mattina dell’ 8 settembre 1943 come di consueto andai a Savona al Comando per portare e prendere gli ordini. Durante il tragitto incontrai un mio conoscente il quale mi disse che il Re aveva fatto l’armistizio e la guerra era dunque finita. Io rimasi stupito e mi affrettai a ritirare gli ordini e la corrispondenza dalla posta centrale e quella locale di Vado Ligure. Rientrai in batteria. Trovai i soldati che facevano festa, avevano saputo dalla radio di una casa vicina che fra poco avrebbe parlato il Re annunciando l’armistizio con gli angloamericani, cioè con gli Alleati. Così avvenne. Tutti noi uscimmo ad ascoltare la radio che quella buona signora aveva messo fuori casa nella villetta. E così potemmo ascoltare il discorso. Quello che ricordo era che il Re ci disse di difenderci da coloro che ci potevano aggredire. Tutto qui. Allora noi sentimmo tutto l’orrore e il disgusto per questi dittatori che per il loro smisurato egoismo ci avevano buttati in una guerra infernale. Nel mentre si discuteva sui nostri guai venne il colonnello Fiorita comandante del gruppo il quale si premurò a dirci di non dare retta a quello che ci aveva detto il re, erano tutte fandonie, si trattava solo che era stata avvistata una squadra navale alleata e non si sapeva dove sarebbe finita. Ora, diceva lui, il Re ha parlato così per tenervi all’erta, ma non c’è proprio nulla di nuovo. Fiorita se ne andò, allora noi capimmo che ci aveva ingannati con quelle parole. Lui era un fascista e cercava alla miglior maniera di svignarsela, farla franca del suo comportamento autoritario che aveva avuto con noi. Dopo un po’ sentimmo un fortissimo scoppio, un boato che fece tremare la terra. Uscimmo fuori e si vede non troppo lontano un gran fumo. Si seppe che i nostri soldati del genio avevano fatto saltare in aria con la dinamite il grande deposito di munizioni di guerra (S. Barbara) che si trovava vicino alla galleria del treno, attaccata alla montagna. Questo per non farla cadere in mano tedesca. Quella sera nessuno ci dette la cena e passammo la notte sperando e soffrendo. All’indomani giorno nove venne in baracca una giovane donna, Luigia Calcagno, c’informò che il nostro ufficiale Vito De Grassi era stato disarmato dai tedeschi. Allora noi intuimmo lo sfascio e tutti insieme concordammo di abbandonare la postazione e di andare ognuno dove meglio poteva. Io corsi a prendere le mie armi, smontai il moschetto e insieme a pacchetti di caricatori feci un pacco per portarlo con me. Indossai un pantalone e una giacchetta civili e col mio piccolo carico che cercavo di non dare all’occhio m’incamminai verso la Lombardia. Arrivato a San Pier d’Arena per non essere visto presi un treno e lì vi trovai altri soldati italiani che come me si ritiravano. Fummo fatti scendere dai tedeschi che arrivarono armati di mitra e ci condussero in una località che a me sembrò un campo di calcio. Guardati a vista con mitra, noi calata la sera approfittando della penombra sganciammo alcune bombe a mano che avevamo nascoste e liberatoci dei nostri carnefici scappammo. Ebbi subito occasione di incontrarmi con le forze della Resistenza. Ora non sto qui a parlare delle tragiche sofferenze, pericoli sofferti, e anche di una condanna a morte da parte dei fascisti che poi non fu realizzata per il precedente intervento dei miei compagni partigiani travestiti da fascisti. Il mio nome di battaglia era Gennaro, quello dei miei eroici superiori era: Gianni, Lustro, Damiani e il grande capo Moscatelli. Con loro e con tanti altri partigiani abbiamo operato con coraggio e altruismo fino ai giorni della Liberazione. Ora a quarant’anni di distanza da quell’otto settembre 1943 abbiamo più che mai la necessità di desiderare una pace giusta, vera e duratura per l’Italia e per il mondo.
Saluto fraternamente. Compagno Ria Germano”


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Pantaleo Gianfreda
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